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Pubblicato da Gennaro di Jacovo a 10:35 Nessun commento: Etichette: donapaideia

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sabato 6 giugno 2009

Appunti sul Mito

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Grosseto
aprilis 2006/2009


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APPUNTI SUL MITO
Considerazioni finali

di Gennaro Di lacovo

« ...juvat integros accedere fontis
atque haurire,
iuvatque novos decerpere flores
insignemque meo capiti
petere inde coronam,
unde prius nulli velarint tempera Musae »

Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, w. 927-930

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A Beatrice, Anna Maria e Maria Pia

Qualunque cosa un esperto oggi dica sull'epica o sul mito è stata detta prima. Questo afferma Chester G. Starr (C. G. Starr, Le origini della civiltà greca, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1964, pagg. 139 segg.). La cosa che maggiormente interessa in merito a questi materiali (l'epica ha assunto la sua struttura definitiva all'inizio dell'VIII secolo) è, in primo luogo, ve¬dere se possiamo 'situarli in un ambiente specifico e usarli come fonti storielle. I punti principali della mia opinione — dice C. Starr — sono che l'epica e il mito omerico non possano con sicurezza essere usati per ricreare un quadro specifico di eventi per una qualunque epoca, sia essa micenea che altra. Essi tuttavia gettano una luce uniforme sulle caratteristiche principali del panorama greco. Come la ceramica del Geometrico Maturo (800-750 a.C.), l'Iliade rappresenta un culmine di evoluzione locale attraverso il Medio Evo ellenico (1150-750 a.C.).

Questo materiale non è databile con pre-cisione. Né una solida tradizione esterna, né chiari riferimenti interni sùggenseoììo una data per l'Iliade. Il suo autore, Ome¬ro, è tanto impersonale quanto lo è il crea¬tore di un vaso del Dipylon (Dipylon: la porta principale di Atene, a duplice entra¬ta. Nei suoi pressi era la più importante necropoli della città. I vasi di stile geo¬metrico ivi ritrovati portano appunto il nome di "vasi del Dipylon" — Dizionario Enciclopedico Treccani, s.v. "Dipylon"). Per i vasi possiamo determinare il luogo e l'ordine cronologico della fabbricazione. L'Iliade sta da sola, se escludiamo l'Odis¬sea; gli studiosi l'hanno posta con argo¬menti persuasivi in un punto qualsiasi tra il XII e il VI sec. a.C. Mentre alcuni piccoli pezzi furono aggiunti più tardi, il poema fu scritto abbastanza presto per prevenire serie distorsioni.

La tradizione epica cessò inoltre di essere realmente produttiva alla metà del VII secolo.

La situazione riguardo al mito è perfino peg¬giore. Il nocciolo della mitologia greca era ben fissato nell'VIII secolo. I rife¬rimenti ad alcuni dei suoi racconti nel¬l'Iliade mostrano che essi erano già ben conosciuti, e i vasi del Tardo Geome¬trico (750-700 a.C) e la lavorazione in me¬tallo cominciarono ad attingere al reper¬torio mitologico alla fine del secolo.
La creazione dei miti era un'arte sem-plice, più diffusa della complessa tecnica epica, che era affidata ad aedi specializ-zati; e così la creazione dei miti durò molto più a lungo. Praticamente tutti i nuclei dei miti greci soggiacquero a ra-zionalizzazione e sistematizzazione nel VII e VI secolo. La mitologia era un mo¬do per riflettere la vita. I miti serviranno anche come espressione delle tensioni e dei problemi della fallibilità umana, come spiegazione dei fenomeni naturali (e in-naturali), come commemorazione dei gran¬di eventi, come cristallizazione delle idee religiose.
La mitologia greca vera sempre in pro-' ;"-e^[V^Vcre-2Ìoric, finché non divennero dominanti i tipi più astratti di pensiero o la creazione del mito non si dilungò dal campo di azione della nostra mente. L'epica e il mito in realtà non sono fa¬cilmente databili.

Né erano destinati ad essere "storia", anche se i Greci poste¬riori li consideravano come realmente veritieri.

Ogni interprelazione dell'Iliade deve tener presente anche le esigenze artisti-che dell'intreccio e le convinzioni lette¬rarie della tecnica epica, perché questi fat¬tori influivano seriamente sulla tratta¬zione delle relazioni sociali e delle isti¬tuzioni politiche, senza parlare dello stes¬so corso della guerra troiana. Tuttavia, anche se lo storico non può aspettarsi di districare eventi speciali da passi epici, l'epica e il mito furono egualmente fog¬giati da esseri umani e il prodotto riflette punti di vista contemporanei sul rapporto fondamentale tra l'uomo e il suo atteg-giamento verso il mondo fisico e le forze divine. Per quel che riguarda i punti più importanti non vi è alcuna testimonianza di brusche rotture nell'antico pensiero greco. Poiché il Medio Evo fu un'epoca di lenta alterazione, possiamo inferirne che la testimonianza dell'epica e del mito sia generalmente applicabile all'intero priodo.
La ceramica del Geometrico Maturo fu la più alta espressione di uno spirito che era altrettanto comune alle fasi anteriori. Eppure per certi aspetti l'epica sembra basarsi più specificamente sull'VIII se¬colo. Starr ritiene implicita in questa opi¬nione la sua idea che l'Iliade assunse la forma in cui noi l'abbiamo, proprio pri¬ma della metà di questo secolo (800-751 a.C.). Il racconto dell'era di Achille fu composto come un'unità da un grande poeta, il quale trasfuse nei suoi versi il suo estro ed il suo impulso drammatico. Quest'autore dev'essere vissuto molto probabilmente sulla costa dell'Asia Mi¬nore, e deve essere posto circa due gene¬razioni prima del poeta dell'Odissea, che apparirà in un ambiente dalle caratte¬ristiche diverse.

Insornma Omero non era più libero di inventare assolutamente dal nulla di quanto non lo fossero i ceramisti geo¬metrici di Atene, e la storia che egli pose nella sua forma finale richiese indubbia¬mente un lungo tempo per la sua crea¬zione. Ma né per l'Iliade né per l'Odis¬sea possiamo sperare di sezionare livelli di sviluppo della storia e delle caratte¬rizzazioni solo sulla oi;Je djvuìtkaonianze interne, anche se logicamente possiamo supporre che tale sviluppo fu alla base della loro attuale forma. Quei difetti di composizione e le incongruenze di cui gli studiosi moderni si servono per deter¬minare successivi strati sono scoperte del tutto soggettive, se non a volte frutto di eccessiva sottigliezza moderna. Studi com¬parativi delle tecniche epiche greche e di altre più moderne gettano una certa luce sul probabile modo di evoluzione dello stile omerico orale; ma è comprensibile con altrettanta chiarezza l'uso nell'epica di formule fisse e le forme metriche esa¬minando i rigidi princìpi di composizione dei vasi geometrici. Che un uomo potesse prendere motivi ereditati e raggnipparli improvvisamente in un capolavoro era stato già dimostrato nella grande anfora CC 200 (anfora del Dipylon).

Dettagliate argomentazioni per sostenere la data proposta (800-751) possono es¬sere dedotte da paralleli archeologici, da riferimenti topografici e dal livello dello sviluppo sociale e politico nell'epica. Ad ogni modo, le basi più conferenti sono le strette relazioni nello stile e nel modo di vedere tra la ceramica del Geometrico Maturo e l'Iliade. I princìpi di composi¬zione di questa "ordinata struttura di versi multiformi" si accordano nel modo migliore con le: tecniche dei ceramisti del Geometrico Maturo tanto nella elabora¬zione dell'esametro e nella costruzione delle scene, quanto nella struttura fon¬damentale dell'intero poema.

Alla base sia dell'arte che della lette¬ratura si trova lo stesso spirito: un'abi¬lità a creare opere possenti, una spinta a fare ciò ed una fiducia sostanziale nella vita. Questo spirito, come si può sentire, è un riflesso dell'inizio dell'VIII secolo, quando l'antica struttura della civiltà greca veniva avviata, ma era ancora salda, come sicuro sostegno per l'attività crea¬tiva; quando le classi dirigenti della Grecia erano disposte e persino brama¬vano di aiutare artisti e poeti a riunire in opere poderose le eredità ancestrali.

Il poema dell'Iliade non poteva evitare di riflettere il carattere del suo ambiente, eppure ogni singola parte dei suoi ma¬teriali poteva avere avuto un'origine molto anteriore. Nollo stabilire il ritmo del cambiamento durante il Medio Evo, lo storico deve prendere le mosse dalla documentazione materiale, molto più si¬curamente databile, e può usare gli ac¬cenni dell'epica e del mito solo in quanto si adattano alla solida struttura già di-sponibile. Il partire in primo, luogo da Omero o il chiamare gli antichi secoli greci "età omerica" significa restringere troppo la nostra visuale. L'Iliade inoltre fu creata in un'età relativamente impre-cisabile, in cui il passato, il presente e il futuro non erano rigidamente separati. Distinzioni culturali tra "greco" e "non greco" erano ancora in via di creazione; all'interno le divisioni politiche erano an¬cora amorfe. Omero non riflette decisa¬mente le caratteristiche di una qualun¬que area specifica o di una qualsiasi espressione locale della cultura greca. Se la sua opera può essere meglio parago¬nata con la ceramica attica, questo non significa che egli fosse un ateniese o che la sua tradizione epica derivasse in primo luogo dall'Attica.

Inoltre Omero si era reso conto che era avvenuto un cam¬biamento, ma nel suo intento di creare una storia generica innestò nella sua ope- chiloco e dei ceramisti dei vasi a figure ra una vena arcaica. Ogni asserzione che nere possono già essere esistiti, sebbene l'epica e il mito riflettano in primo luogo ancora senza un loro portavoce, nell'età lo spirito dell'inizio dell'VIII secolo e poi di Omero. L'epica era incapace di imma-
più generalmente il sistema di vita del ginare gli uomini fisicamente come un
Medio Evo deve fare i conti con gli sforzi tutto intero, mosso dall'interno. Questa è
molto frequenti che mirano ad assegnare una caratteristica dell'VIII secolo. Una
a questo materiale origini micenee .o analisi dettagliata del vocabolario di Ome-
orientali. In merito al primo problema; ,ro e dei suoi modi di dire ha dimostrato
non si sa fino a che punto il mito greco » che per il poeta l'essere umano era un
derivasse da fonti micenee. Sforzi entu- insieme di parti, come è rappresentato
siastici sono stati fatti per scoprire le nelle figurazioni del Dipylon. Nell'Iliade
rappresentazioni di Europa sul toro e l'uomo esiste solo per agire. Nell'Odissea
altre figure mitiche su sigilli, gioielli e compare una forza interna e una consi-
vasi micenei, ma studiosi più cauti hanno derazione volutamente attenta del proprio
incontrato poche difficoltà nel negare agire.
tutte le identificazioni proposte. Benché Tra le due opere si trova la fase ini-
sia possibile che gli uomini nell'età mi- ziale della rivoluzione nella civiltà greca.
cenea abbiano avuto dei miti, essi ora L'Iliade è per noi la più importante pietra
non possono essere identificati. miliare nello sviluppo del Medio Evo che
Quando gli uomini giunsero a conside- precorre quella rivoluzione. ,
rare gli dèi più definitivamente in forme Tuttavia, benché gli eroi dell'Iliade de¬
simili alle proprie, raggiunsero una mag- rivissero la forza da un impulso divino,
giore consapevolezza della loro propria essi erano caratteri dotati di libertà di
natura. La riflessione profonda e conscia volere, sostanzialmente razionali, riflessi-
sugli aspetti essenziali dell'umanità e sul vi ed avveduti. Pur soggetti a schemi
suo posto nel mondo, uno dei segni ca- ferrei di una comunità, manifestano at-
ratteristici della cultura greca, fu una teggiamenti individuali, mostrando cosi
conquista dell'età della rivoluzione. I suoi una tipica caratteristica greca, emersa
primi stadi avevano avuto luogo all'inizio dalla civiltà arcaica e trasmessa nella
dell'VIII secolo. Ci sono a testimonianza classicità ellenica più tarda. Gli uomini
i vasi del Dipylon e i ritratti di Omero, dell'inizio dell'VIII secolo non erano con¬
ia cui "conoscenza delle passioni del- sciamente orgogliosi delle proprie con-
l'umanità" doveva rendere il suo lavoro quiste: tale egocentrismo intervenne nel
un duraturo manuale di vita umana e periodo seguente.

Le conquiste psicologiche degli ultimi scente ricchezza delle tombe dei nobili,
cinquant'anni ci hanno portato a vedere l'emergere della ceramica del Dipylon,
più chiaramente che il ritratto omerico l'adozione dell'alfabeto, il culto degli eroi, dell'umanità era ancora limitato per molti l'aumento dell'uso di figurine e altari — aspetti importanti.

Questa limitazione era tutti elementi databili —, indicano che
in parte il risultato della stilizzazione di la cultura greca si muoveva verso una
una tecnica epica, orale, che forzò i poeti, nuova fase.
come anche i ceramisti del Dipylon, a Sulla solida base di queste indica-
lavorare entro uno sfondo di schemi ac- zioni si può sperare di datare l'Iliade, il
cettati e di semplici composizioni. Solo momento in cui il mito si fissò e il
così l'ordine poteva essere portato nel pantheon olimpico si cristallizzò, nella
caos della vita. Omero, inoltre, non si stessa epoca.
sforzò di essere Dante e di abbracciare Le cause di questo "cambiamento"
tutta la conoscenza e il pensiero della dell'VIII sec. non sono chiare. Lo stor-
sua epoca. Molto evidentemente intere dimento causato dalla rovina micenea,
fasi dell'attività umana non potevano l'isolamento conseguente non furono
entrare nella storia epica della guerra, estranei alla nascita dei tempi nuovi. Ere-
Gli aspetti delta vita che furono espressi ditando una massa di elementi più an-
nell'opera del VII secolo di Esiodo, Ar- tichi, le generazioni che vissero nell'Egeo
dal 1100 al 750, li fusero in una conce-zione coerente e in una struttura sociale che al tempo dell'Iliade deve essere chia¬mata "Greca". Chester G. Starr precisa le sue teorie sull'epica e sul mito alla luce, soprattutto, delle scoperte e dei ri¬trovamenti archeologici. A lui interes¬sano "mito" ed "epica" in quanto feno¬meni storicamente accettabili, non tanto nella loro veste di momenti esistenziali sempre presenti ed operanti nell'animo umano.
Il mito quale momento poetico crea¬tivo dell'uomo, fissato in racconti, è il corrispettivo, nella tradizione orale e letteraria, di quel che era ed è tutt'ora, nella vita pratica quotidiana, quel "pas¬sato" che non è passato in quanto è atemporale, eterno presente, attualizzato nei prototipi della coscienza mnemonica, vivo ed operante nell'azione momentanea. Il passato che non è morto e che vive in situazioni particolari.
Ciò che importa, del passato, è ciò che si dimentica. Si ricorda il sedimento e la storia. Ciò che è destinato a soprav¬vivere sopravvive apparentemente in se¬greto, in realtà nel modo più evidente e palese, poiché sopravvive come materia esistente di chi ha sperimentato il pas¬sato: come presente vivente, non come memoria di passato morto.

Dioniso era il dio del dolore, poiché è dolorosa la perdita del passato quando il passato non è ricordato in quanto è ri¬masto presente. Il dio della perdita. La meccanica e superficiale interpretazione dello schema di morte e rinascita intra¬visto nelle testimonianze della religiosità dionisiaca può essere modificata in questo senso: così come nell'iniziazione primor-diale, l'esperienza di morte e di rinascita è innanzitutto cambiamento, passaggio da uno stato ad un altro. La morte che prelude la rinascita è l'abbandono del passato, il quale cessa di essere tale e non è ricordato perché è divenuto pre¬sente: la parte del passato che non si ricorda, che non è passato. La rinascita è, appunto, l'esperienza di quel presente che comprende in sé tutto ciò che del passato era vivo ed è vivo: tutto ciò che non si ricorda.

"Wirf dein Schweres in die Tiefe!..."' "Getta il tuo peso nel profondo! Uomo! Dimentica! Uomo dimentica!
Se vuoi volare,
se vuoi essere di casa nelle altezze,
Ecco il mare, gettati nel mare!


Divina è l'arte del dimenticare!".
Così Friedrich Nietzsche. (Ditirambi di Dioniso e poesie postume — 1882-1888 •—, Adelphi, Milano 1977, pag. 169-70).
Questo accennato è solo uno schema temporale della dinamica interna all'espe-rienza religiosa dionisiaca. Qual è il con-tenuto di questa esperienza? È proprio
10 schema temporale, il passaggio, la perdita del passato in quanto divenuto presente.
Giustamente si è riconosciuto in Dioniso il dio del dolore. Ciò che rende
bifronte ai nostri occhi il volto di Dioniso è il dolore implicito nella rinascita:
11 dolore che è -fatale nell'accesso alla
gioia.

In una camera di bronzo, davanti al laccio silenzioso dello strangolatore, abbiamo avuto speranza; nel fiume dei piaceri, paura.
Qualcuno griderà che amore è spesso dolore? Senza crudeltà non c'è festa e anche la pena ha in sé molto di festivo.


A questo punto si sovrappone allo sche-ma temporale lo schema metafisico.

Se il passato è il "fin qui noi siamo" pro-nunciato dagli uomini, e il presente è "il resto è cosa degli dèi", quando nell'espe-rienza dionisiaca il passato è dimenticato, dunque è divenuto presente, l'uomo ac¬cede a " il resto è cosa degli dèi ", speri-mentando, nella separazione dal " fin qui siamo noi", la perdita dell'umano, della sua dimensione. Si equipara agli dèi di¬menticando il passato e vivendo un pre-sente senza -futuro, un domani senza pas-sato: quando si parla dell'ebbrezza dio-nisiaca o dell'erotismo orgiastico, non è possibile Jmjc^r^e^qMesta consacrazione del presenterete è ìtt^témpo stesso la-cerazione e gioia, passaggio: superamento dei limiti. L'esperienza erotica dell'orgia è, appunto, il più crudo e doloroso pre¬sente assoluto. I simboli sessuali dell'ico¬nografia preistorica sono, d'altronde, ga¬ranzia di vita non tanto come garanzie del perdurare della specie, quanto come emblemi, simboli efficaci dell'assoluto presente. L'orgia è innanzitutto attualità, simultaneità, presente. E la tradizionale sentenza latina "post coitum animai tri¬ste" va intesa non tanto nel sens.o di rim¬pianto o di percezione di colpa, quanto nel senso di confermata perdita del pas¬sato. Potrebbe trattarsi anche di senso di colpa, se il passato perduto è innocenza primordiale (il "Verginità, verginità ti perdo " di Saffo). Il dionisismo appare inattuale ideologicamente. L'esperienza re¬ligiosa dionisiaca è stata dimenticata, e dunque è divenuta materia vivente nei sin¬goli presenti.
Il dionisismo originario era " ciò che del passato si dimentica ". Presente vivente.
Il " dionisismo " di Nietzsche era inat-tuale, non era che presente nutrito del passato — il presente in cui non si può riconoscere il passato, poiché è divenuto presente.

Nietzsche era convinto di "ricordare il passato".

In realtà — e Jeanmarie lo di-mostra (H. Jeanmarie, Dioniso. Religione e cultura in Grecia, trad. it. di G. Glasser, Einaudi, Torino 1972) — né lo ricordava, né avrebbe potuto ricordarlo.

E soffrì le pene di chi ha perduto il passato.
Le soffrì, senza saperne riconoscere la causa, appunto perché il passato credeva di "ri-cordarlo", anche se ebbe in proposito più d'una repentina illumuiazione. Nel paragrafo 224 di "Aldilà del bene e del male", scrisse: "I nostri istinti ripercor¬rono tutte le vie del passato, noi stessi siamo una specie di chaos: — ma, infine, come già dicemmo, lo "spirito" sa tro-varci il suo vantaggio".


Si direbbe che "ripercorrere tutte le vie del passato" sia il contrario dell'aver "perduto il passato". Ma se si guarda più a fondo, appare molto più probabile che il "ripercorrere tutte le vie del pas¬sato" da parte dei "nostri istinti", signi¬fichi l'aver "dimenticato" il passato, poi¬ché ciò che del passato è vivo, è il pre¬sente. Ma non senza dolore ci si stacca dal passato per possedere solo il presente, non senza dolore si rinasce — non senza morire (F. lesi, Materiali mitologici, Ei¬naudi, 1979, Torino, pagg. 121 segg.).

In quanto "tradizione letteraria", il mito, il materiale mitologico, è scoria, dunque. È il "ricordato". Un relitto del passato. Ma il mito, la "mitopeia", in quanto creazione di " prototipi ",* di "fi-gure" che la mitologia dell'anima di cia-scun individuo crea (e che sono costituite

*C.G. Jung ha battezzato queste figure determinanti « archetipi ».

Kerényi, oltre a chia¬marle « prototipi », che ha un significato non simile ma affine, le definisce anche « imma¬gini » o « figure ».

L'archetipo di Jung non è mai visibile, in sé, bensì solo suscettibile di ipòstasi, risultato della sua funzione formativa; l'« archetipo » di Kerényi può in sé e per sé essere, visione aa Ogni uomo ea e n suo segreto, che ogni uomo coltiva nei propri pensie¬ri segreti e contempla senza mediazioni, creandolo, se è un veggente. La malizia di Hermes, intrinseca nell'esercizio dei pensieri segreti, fa si che l'archetipo sia creato dall'uomo — non: si appalesi all'uomo o nell'uomo — ogni volta che l'uomo entra in rapporto di consapevo¬le contemplazione con il suo « essere fuso » col mondo, dunque — in una sorta di corto circuito mitogenetico —, si sente afferrato perché si afferra.

(...) La distanza fra « archetipo » (Jung) e « prototipo » (Kerényi) è quella che inter¬corre fra due diverse valutazoni di ciò che avrebbero potuto incontrare i « meditabondi pellegrini » se si fossero spinti « in agro », nei passaggi del sogno: immagini, per Jung; ma¬schere, per Kerényi.

Il « prototipo » (Urbild) di Kerényi è un'immagine (Bild) che non ap¬partiene al territorio del sogno e che non deriva dall'essere afferrato e modellato deV.'i'.o-rfio-fal miro; ma il « prototipo » si collega al territorio del sogno,.perche-nèh* pt'uioìiìsu » assume forma la coscienza dell'« essere fusi » (Verwobenheit) con tutto il mondo sensi¬bile: un « essere fusi » che, nel sogno, è concretato dalla maschera, volto rigido come — pa¬radossalmente — una rigida copertura di perenni fluttuazioni metamorfiche su ogni lo. In quella che per Kerényi è la maschera, fluttuazioni d'immagini irrigidita per eccesso, Jung riconobbe gnosticamente un repertorio d'immagini nelle quali l'uomo sperimenta il suo « essere gettato » (Geworfenheit) nel mondo anziché il suo « essere fuso » con il mon¬do. Al « manichesimo » (Martin Buber) di Jung e alla sua tendenza ad analizzare per vici¬nanza e veggenza gnostico i materiali mitologici, Kerényi contrappone il suo umanesimo di « iniziato ai misteri di Hermes », meditabondo pellegrino che indaga tanto più acuta¬mente, quanto più avverte la distanza che lo separa dall'oggetto d'indagine e la povertà di veggenza che gl'impedisce di superare quella distanza. Hermes è « la guida delle anime »: per un mitologo che, come Kerényi, sia convinto di poter ricorrere alla scienza della mito¬logia come una scienza che trae valore — di arte d'autoritratto — dal rapporto con le fi¬gure mitologiche istituito dal suo riflettere su sé stessa, essere iniziato ai misteri di Her¬mes significa essere, oggi, iniziato a non avere una « guida delle anime » e ad addentrarsi tuttavia, di là dalle immagini, nei territori della morte e del sogno. Kerényi, dopo un pe¬riodo giovanile di profonda partecipazione al cattolicesimo, fu sempre estremamente re¬ticente sulla propria religione o religiosità personale. Di questo suo atteggiamento si può dire soltanto che fu una dedizione al segreto, ma ad un segreto visibile, ad una maschera ermetica e maliziosa di afferrato-afferratore, di facitore-contemplatore di archetipi, di là dalla quale non vi sono archetipi invisibili, ma un'apertura umanistica all'ignoto esisten¬dole. Non a un inconscio collettivo di elementi formativi invisibili, ma all'ignoto privo di ogni interferenza con il conosciuto: all'ignoto della vita per il nascituro e della morte per chi dovrà morire: « Prima di nascere non sapevamo nulla della vita, eppure essa è stata bella: per lo stesso motivo anche la morte non deve farci paura: essa non ci deluderà » /citazione da Tagore, fatta da K. in un colloquio) {dalla Introduzione di F. Jesi, sta in Mi¬ti e misteri, di K. Kerényi, pagg. 7-19) da elementi formativi, la cui efficacia può sempre constatarsi nelle manifesta¬zioni dell'anima, sia nei suoi sogni e visioni, sia nelle sue creazioni artistiche o nel suo modo di modellare la sua vita individuale), è un'attività incessante del-l'anima umana di ogni individuo, capace di rinnovare il gesto più ripetuto, strap-parlo al passato, dimenticarlo e compier¬lo, come se fosse una prima volta, ma già "conosciuta". È questa gestualità, questo sentire intuitivo eppure abituale che ci permette di compiere un'azione, sia pure già accaduta milioni di volte, di assistere ad un evento, sia pure già accaduto milioni di volte, come se fosse la prima ed "ultima" volta. Ed è chiaro che tutti noi quando sappiamo agire mo¬mentaneamente, senza che l'ansia del fu¬turo e l'angoscia del passato riescano a bloccarci e paralizzarci, agiamo "mitica¬mente". Anche se nulla sappiamo del "mito" come è inteso letterariamente, perché ognuno ha la sua dimensione mi¬tica, il "suo mito". Il suo spazio fuori dal tempo. Per l'uomo che nulla sa, per l'uomo quando nulla sa né ricorda con dolore e non intende agire per un fine prestabilito e preciso, se non per uno già compreso naturalmente nell'assenza stessa della sua azione, che questo la con¬taminerebbe in qualche modo e ne di¬struggerebbe l'attualità, agire è "agire miticamente". Ossia, l'agire miticamente è l'agire in sé e per sé. L'agire in cui la memoria ed il passato si fondono nel presente e non rappresentano un dolo¬roso fardello.



Tutto ciò che è "futuro" nasce dall'atto, dall'agire stesso, ed è già in qual¬che modo conosciuto, non previsto in ogni particolare, e non da angoscia, non da oppressione, poiché tutto sarà come "deve" essere.
Per l'antico Greco la conoscenza del mito quale vicenda scritta, giustificava per la propria coscienza un'azione — qua-lunque essa fosse — a favore e contro chiunque, poiché non è fattibile il bene senza il male, poiché non c'è gioia senza dolore. Bene e male, gioia e dolore sono le conseguenze d'ogni azione. E qualsiasi . azione, ne da in eguale misura. Il vivere "miticamente" dava forse al Greco quel senso di "certezza", quella purezza, quel¬la ingenuità, che era malvagità senza ver¬gogna per sé stessa, che era — Apollo e Dioniso — sapienza e dolore.
Eppure non bastò a vincere l'ansia, ''angoscia, il sapere fissato in formule mitiche.


Il mito, divenuto letteratura e fossilizzato "fuori" dal Greco, perse la sua funzione. Fu necessario "divinare" e profetizzare.

Questo era come un proiet¬tare nel futuro, oscuramente ed enigma¬ticamente, situazioni passate e presenti. "In chi è convinto che l'avvenire sia prevedibile normalmente si illanguidisce l'impulso all'azione: in Grecia troviamo invece paradossalmente coesistente una cecità completa, nella sfera politica, ri¬spetto alle conseguenze dell'azione, o ad¬dirittura con un furore senza freni nel-l'affrontare imprese disperate, contro le predizioni del dio. Eppure la nostra perplessità può essere superata, quando si consideri che questa grandiosa impor¬tanza del fenomeno della divinazione non si accompagna per forza a una visione generale del dominio unico e assoluto della necessità nel mondo.

Il concetto di destino, potentissimo presso i Greci, tolse loro tanto poco il gusto dell'azione, che un impulso forsennato di autodistrutti-vita rese la storia greca brevissima in confronto alle immense forze latenti in questo popolo." (G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1978, pag. 45).

In questo brano Colli pare non consi-derare il fatto che l'uomo ama soprat-tutto la serenità e la tranquillità, ma si sente spesso attratto verso l'imprevedi¬bile, il caos che spezza il ripetersi mec¬canico degli eventi esistenziali. O piuttò¬sto pare, lui così amante della grecita, dispiaciuto della sua breve vita storica.

Ma il tempo, cos'è il tempo? , fu solo un "volo d'Jcaro", dunque, quello dei Greci?
O non fu; quel loro breve volo, quanto più volentieri ricordiamo, per la sua drammatica intensità e con¬vivenza di purezza e malvagità?


Chi vuole troppo chiarire, precisare, co-noscere, non finisce poi con l'agire il più avventatamente possibile, anche con¬tro la sua stessa volontà e la sua stessa ragione di esistere?

Firenze ascoltava il suo profeta, molti "secoli" dopo. E lo bruciò.
E lo stesso profeta, non aveva forse l'atteggiamento di chi troppo vuole e subito?
Ma a proposito di Apollo e della divi-nazione sarà fatta qualche considerazione in seguito, riprendendo alcune osserva¬zioni sopra Giroiamo Savonaroia.
"Invece il mito è la comunicazione di¬retta del pensatore, di fronte alla quale tutto il resto diventa una tortuosa divagazione.


I Greci ci presentano molte favole serie, ci narrano la storia degli dèi e del mondo: Esiodo e Parmenide, Pin-daro e Piatone, Eschilo ed Eraclito ci raccontano come sono veramente le cose intorno a noi, viste da un occhio più penetrante. Le immagini della loro fan¬tasia ci mostrano la filigrana della realtà" (G. Colli, Scritti su Nietzsche, Adelphi,. Milano 1980, pag. 121).



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In questo modo il mito è l'Alibi, l'Al-trove ove tutto è accaduto e che tutto autorizza ad accadere. Il fatto — l'evento — accaduto, una volta per tutte, spogliato del sentimento, che è "tempo", deresponsabilizza l'individuo conciliando l'indivi-duale con l'universale, l'intuizione con la ragione, il passato che muore nel dolore e rinasce nella gioia presente, l'in¬tuizione e l'ebbrezza (Dioniso) con l'in-telligenza della contemplazione razionale e fuori dal tempo, immersa nella logica, che è in quanto sarebbe comunque: è futuro e non è nel tempo giacché è so¬gno, mantica, profezia (Apollo).


E tuttavia questo punto in cui la Memoria e la Storia (che non è l'azione, ma l'atto; non il fare, ma il fatto, il finito, il "compiuto") si fondono con la Vita (l'agire indistinto e non necessaria-mente finalizzato) e l'azione (che è il determinato agire nel Tempo e nello Spazio) non riescono ad annullare del tutto l'ansia (paura del possibile incon-trollabile, del futuro quale ci dannegge-rebbe) e l'angoscia (il dolore della per-dita di qualcosa di sé, che è dimenticato, morto, ed è presente che sempre fugge) che ritornano dopo l'atto del _supera-meìito degli opposti antitetici (DioiiLov Apollo = Passato-Futuro = Dolore-Gioia), perché si ripeta di nuovo la cosa, perché il processo è un procedere senza inizio e senza fine, è la coincidenza degli op¬posti, diversi, ma non avversi. Affini, "uguali ma non simili".

La consapevolezza dell'inutilità, della ripetitività del processo, lo rendono mo-notono e privo d'interesse. E questo è il "taedium vitae". Ed anche questo, co¬me tutto, è già "previsto", perché è già accaduto.
Nella Nascita della Tragedia, Nietzsche chiamò conoscenza, verità, la sconvolgen-te intuizione dionisiaca della radice or-renda della nostra esistenza (G. Colli, op. cit. — scritti su N. — pag. 106).

La coscienza di questo dolore fatale — la notte in cui il passato sparisce quando diviene presente — può essere intesa come conseguenza dell'allontanarsi degli dèi: come, nelle parole di Hegel, il "pe¬riodo della coscienza infelice".

In Schopenhauer e il Romanticismo, Pietro F. Quarta (Alla Bottega, Anno XII, N. 3, Maggio-Giugno 1974, pagg. 8 segg.) mette in luce la stretta relazione tra la ideologia del filosofo e il movimento romàntico: ferma restando la difficoltà di ridurre questo movimento spirituale * nei termini perentori di una definizione unica, valida tanto comprensivamente quanto estensivamente, il Romanticismo rivela come suoi caratteri costitutivi due tendenze fondamentali, una negativa e l'altra positiva, le quali, naturalmente, confluiscono in un'unica Weltanshauung.
In termini di negazione, il Romantici-smo si oppone al razionalismo illumini-stico e all'intellettualismo astratto, inca-,pace d'intendere la vita singola, che viene, invece, ripensata attraverso le con-traddizioni della esistenza e la tensione verso poli opposti. È ovvio che il Ro-manticismo non intende distruggere la Cagione o l'intelletto, ma ne nega le soluzioni chiuse e statiche.

In termini di affermazione, il Roman--ticismo sostiene la prevalenza dell'intui-zione immediata sulla riflessione, la su-periorità del sentimento sulla ragione, la riconduzione del senso della vita a un principio cosmico, per cui ne deriva una visione drammatica dell'esistenza umana, ripensata in termini di nostalgia e d'iro¬nia.

Il Romanticismo sente in sé e intorno a sé il mistero, la ,realtà sensibile si presenta come aspetto Esterno di un'altra più essenziale realtà, che gli sfugge: non può avere mete precise a cui tendere e soffre per questo suo perpetuo ricercare qualcosa che lo appaghi. In questa con¬tinua tensione verso una meta, il ro-mantico vagheggia il diverso, il lontano nel tempo e nello spazio, sede di una per¬fetta felicità che il vicino non può dare: ma la consapevolezza della impossibilità del sogno a cui si abbandona, genera la costituzionale scontentezza che è propria della sensibilità romantica, la Sehnsucht, la nostalgia, l'abbandonarsi al sogno sa¬pendo di sognare. Nasce così il mito del dolore, considerato non solo come in-sopprimibile, ma come consustanziale alla natura umana; la consapevolezza della propria infelicità è ciò che distin¬gue l'uomo dai bruti; rinunziare al dolore significa rinunziare alla propria dignità di uomo.


Dalla scoperta del fascino dello strano, dell'esotico, del diverso, alla « tempestosa leggiadria dell'orrore », come diceva la Shelley, non c'è che un passo; e del resto uomini che concepiscono la vita come un dramma non possono non vedere il dramma anche nelle cose che li circon¬dano; le brutture, le sofferenze, le ma¬lattie sono gli aspetti visibili del dolc¬iore che è nel fondo delle cose: scoperto il brutto, lo si ama, con il senso dolo¬roso del « cupio dissolvi ».

Tutti questi caratteri sono presenti in Shopenhauer assieme alla carica emotiva che contraddistingue l'anima romantica: la coscienza dell'antinomicità della vita. Questa carica si esprime in lui nel dis¬sidio fra pensiero e impulso, fra esigenze razionali e tendenze estetiche, fra sen¬sualità, irritabilità, tristezza e l'esigenza del loro superamento nell'ascetismo e nella noluntas. Il dissidio si manifesta anche nel contrasto fra individuo e specie, fra istinto e coscienza, fra temporale e eterno, fra mondo fenomenico e mondo noumenico.

Come i romantici, Schopenhauer avverte la situazione antinomica dell'uomo, l'oscil¬lare tormentoso tra la piattezza della vita quotidiana e la rarefatta atmosfera di una visione ideale e la confusione dell'una e dell'altra in una equivoca Wel-tanshauung, delinea tutte le esperienze e le alternative personali capaci di supe¬rarla, pervenendo, sul piano della rifles¬sione filosafica, alle estreme conseguenze.

Dalla vita come rappresentazione passa alla vita come arte, come pietà, al motivo del superamento della volontà individuale, fino alle ultime "cataboliche" conclusioni.

Rimane, anche dopo l'estrema soluzione, la problematicità della soluzione; e non perché essa stessa è problematica, ma perché è la vita umana di tutti gli uomini a rivelarsi incapace di accettare, una volta per sempre, la soluzione del problema. Non basta avere scoperto che l'essenza del noumeno è la volontà; non basta aver rivelato la via che conduce alla riduzione della volontà individuale alla volontà cosmica; l'umanità rimane ancorata ai due termini del problema e prospettarne le soluzioni non significa ottenerne l'acccttazione. In tal modo, nel romantico Scliopemiauer, l'assoluto e il relativo rimangono come termini di una opposizione continuamente rinnovantesi da uomo a uomo, da generazione a generazione. « Nella molteplicità delle forme di assoluto determinate da Schopenhauer riaffiorano tutti i motivi antitetici e il Romanticismo si rivela nel groviglio delle sue contraddizioni insuperate. Di antino-mia in antinomia si è giunti a quella della volontà con sé stessa e dell'essere con il nulla. L'esigenza dell'autocoscienza si è sollevata fino ad un concetto così radicale di libertà, da vederne l'ideale nell'autonegazione del mondo » (citato da: U. Spirito, La vita come arte, Firenze 1948, pag. 246).
Il romanticismo, dunque, ha riportato in primo piano la nebbia dell'esistenza umana, di contro alle illuminate certezze del razionalismo settecentesco.

L'antitesi fra notte e giorno, dice Furio lesi (op. cit. pagg. 129 segg.), che Hòl-derlin evocò quale perenne alternanza nell'elegia "Pane e vino" (Brot und Wein) può coincidere (invertendo i termini con-sueti delle sue interpretazioni) con l'al-ternanza passato-presente, là dove la notte è il passato divenuto presente e il giorno è il presente in cui si è dimen-ticato il passato (appunto perché dive¬nuto presente).

Affermare che " passato " nel dionisismo originario coincida con la materia stessa del divenire, e che "presente" sia nome dell'attimo in cui il divenire sembra ar¬restarsi poiché ricondotto al suo para¬digma (o al suo primo motore) nel volto del dio, significa ritornare alla coincidenza eraclitea degli opposti Hades-Dioniso, e dunque prolungare la sequenza del pas¬sato-presente in invisibile-esibito.
Giustamente Louis Gernet neiìsFSHesQi? servazioni sul libro di Jeanmarie fece notare che una caratteristica fondamen¬tale dell'opera consiste nell'attirare l'at¬tenzione suH"'inafferrabilità" della per¬sonalità di Dioniso e sulla scarsa origi¬nalità degli elementi culturali e mitolo¬gici che vi si riconnettono.


Dioniso non può essere individuato ricorrendo essenzialmente alle componenti specifiche dei suoi culti e dei suoi miti, della maggior parte dei quali appare ere¬de, se non usurpatùre: la sua autentica originalità, la verità più profonda della sua personalità, tra le più forti e fasci-natrici del pantheon ellenico, risiede ed è con chiusa nella sua stessa presenza.
A differenza di quasi tutti gli dèi greci, egii non rivela la sua fisionomia nelle attività religiose cui presiede o nelle tra-dizioni mistiche di cui è protagonista: esse si sono raggruppate intorno a lui quasi come sovrapposizioni a posteriori, a causa di alcuni aspetti — e non sem¬pre fondamentali — dell'universo proprio che egli impone con la sua sola presenza. Dioniso è, dunque, esibizione di una real¬tà, il cui essere profondo è contraddi¬stinto dalla tonalità passato-morte-invisi¬bile.


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Grosseto
aprilis 2006/2009

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Dioniso è il paradosso divino del ricordare ciò che si dimentica, del pre¬sente in cui il passato "sopravvive appunto perché ha cessato di essere. Jeanmarie precida che Dioniso non è il "dio della morte", ma con la sua sola presenza evoca la morte e l'aldilà. Nel sottolineare questa tesi di Jeanmarie, Gernet toccò un punto fondamentale dell'essenza di Dio¬niso, configurando il dio entro il contesto del pensiero di Piatone come il probabile Altro, l'opposto al mondo delle idee. Ciò arricchisce e perfeziona il concetto di dio inafferrabile, trasformandolo in quello di dio dell'antitesi nel quadro del fenomeno che Gottfried Benn disse "il Nulla che urge alla forma". Dioniso è "l'esibizione del nulla": il passato che dura entro il presente nell'istante in cui cessa di essere.


L'allontanarsi del passato, che cade nel nulla quando dura nel presente, è la notte seguita all'allontanarsi degli dèi? Se la risposta — come ritiene F. lesi (op. cit. pagg. 130 segg.) — deve essere affermativa, la conseguenza dell'allonta¬narsi degli dèi — la notte della "coscien¬za infelice" — coincide non solo con il dolore fatale nella frattura tra passato e presente, ma con la necessità di morire prima di rinascere. L'antico presuppo¬sto delle esperienze inizìatiche divie¬ne norma fondamentale dell'esperienza umana dell'essere, quando dinanzi agli uomini si collocano non gli dèi identifi-cabili in base alle loro prerogative e ai loro miti, ma gli dèi — come Dioniso — "inafferrabili": gli dèi che sono esclusi-vamente "il divino", che non sono suscet¬tibili di attributi rivelatori, ma che con la loro presenza evocano la realtà di un universo.

È importante notare a questo punto che il dio greco più suscettibile, oltre a Dio¬niso, d'essere identificato come "il dio" per eccellenza, di là da ogni attributo e da ogni prerogativa culturale e mitica, è Apollo.

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Gli stessi temi della sua mitologia sono proposizioni delle grandi costanti dell'es-
sere nel riflesso della sua presenza. Non a caso, quindi, coloro che negli ultimi duecento anni hanno sperimentato i do-lori della "coscienza infelice" si sono tro-vati dinanzi così spesso l'antitesi Dioni-so-Apollo. Non si pensi soltanto a Nietz-sche, ma a Creuzer, a K. O. Miiller, a Bachofen. Si direbbe, infatti, che il dram¬ma insito nei rapporti con il passato -, "sacro", il dramma del dover dimenticare per sapere veramente, abbia assunto le forme di una contesa tra Dioniso e Apollo, appunto perché essi — come "divinità per eccellenza" e non singoli aspetti del divino — potevano identificarsi meglio di ogni altro dio con gli dèi "assenti". Così furono riconosciute in essi le due fasi di "perdita" e di "recupero", che condizionavano le relazioni con il passato "sacro" e che, prese isolatamente l'una dall'altra, non potevano condurre alla pienezza. Apollo e Dioniso sono inscindi-bili. La loro separazione porta alla "co¬scienza infelice".

L'insistenza sul carattere tragico e do-loroso dell'esperienza dionisiaca nasce allora non soltanto da una tonalità pri¬mordiale della presenza del dio, bensì soprattutto dall'impossibilità di isolare l'universo che egli impone da quello che impone Apollo, e dunque dalla fatalità d'un contrasto insanabile. Coloro che vi-vevano nella notte della "coscienza infe-lice" non si sono limitati a volgersi verso i miti antichi come a fonte di rivelazione, ma hanno creato una nuova mitologia: hanno evocato nuove immagini di divi¬nità nell'istante stesso^ in cui percepivano dolorosamente ~ Js^a^Stóg^m'e .deJT^allon-tanarsi degli dèi. I nomi di Apollo e Dio¬niso quali compaiono negli scritti di Frie¬drich Shlegel, dei romantici di Heidelberg, di Bachofen o di Nietzsche, designano due nuove divinità che corrispondono alle due fasi del doloroso dimenticare-sapere nei confronti del passato; e quei nomi sono fatalmente i nomi delle due divinità antiche in cui il divino subiva meno limi¬tazioni attributive: Apollo e Dioniso, gli "dèi per eccellenza", i prototipi — in quanto tali — degli dèi che si sono al-lontanati.

Ciò non vuoi dire, naturalmente, che l'antitesi Apollo-Dipniso non abbia alcun significato originario nella storia della re¬ligione greca; ma nell'ambito greco sa¬rebbe probabilmente più esatto parlare di una differenza anziché di una antitesi. Apollo fu profondamente diverso da Dio¬niso. Basti pensare da un lato ai vincoli
strettissimi fra la religione di Apollo e la politica; dall'altro all'assoluta estra¬neità di Dioniso verso la sfera politica; ma i due universi imposti dalle presenze delle due divinità non dovevano affatto essere evocati insieme, in modo da con¬figurarne costantemente il contrasto.


Le pagine molto equilibrate che Jeanmarie dedica alla presenza sia di Apollo sia di Dioniso nel santuario di Delfi, chiariscono che Dioniso "non risvegliava la gelosia di Apollo, poiché non appariva in con¬correnza con Apollo nell'ambito che que¬st'ultimo si riservava".

E se Dioniso regna nel presente, è il futuro il dominio di Apollo. In realtà, se-condo G. Colli (La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1978, pagg. 45 segg.), la divinazione del futuro non implica un do-minio esclusivo della necessità. Se qual-cuno vede prima quello che accadrà fra un minuto o fra mille anni, ciò non ha nulla a che fare con la concatenazione di fatti o di oggetti che produrrà questo futuro. Necessità indica un certo modo di pensare tale concatenazione, ma preve-dibilità non significa necessità.

Un futuro è prevedibile non perché esista un nesso continuo di fatti tra il presente e l'av-venire e perché in qualche modo miste¬rioso qualcuno sia in grado di vedere in anticipo tale nesso di necessità: è pre¬vedibile perché è il riflesso, l'espressione, la manii estazione di una realtà divina, che da sempre, o meglio al di -fuori di ogni tempo, ha in sé il germe di quel¬l'evento per noi futuro.

Perciò quell'avvenimento futuro può non essere prodot¬to da una concatenazione necessaria àtì essere ugualmente prevedibile; può essere il risultato di caso e necessità mescolati e intrecciati, come sembrano pensare al-cuni sapienti greci, per esempio Eraclito. Questa mescolanza si addice alla natura di Apollo e alla sua doppiezza. La sfera della follia, che gli appartiene, non è la sfera della necessità, ma piuttosto dell'ar¬bitrio. Analoga indicazione viene dall'am¬biguità del suo manifestarsi: l'alternarsi di un'azione ostile e un'azione benigna suggerisce il gioco piuttosto che la ne¬cessità. E per sino la sua parola, il re* sponso oracolare, sale dall'oscurità della terra, si manifesta nell'invasamento della Sibilla, nel suo farneticare sconnesso, ma che cosa esce fuori da questa magmatica interiorità, da questa indicibile possessio¬ne? Non parole indistinte, non allusioni scomposte, bensì precetti come "nulla di troppo" oppure "conosci te stesso".

Il dio accenna all'uomo che la sfera divina è sconfinata, insondabile, capricciosa, folle, priva di necessità, tracotante; ma la ma-nifestazione di essa nella sfera umana suona come un'imperiosa norma di mo¬derazione, di controllo, di limite, di ra-gionevolezza, di necessità.

Attraverso l'oracolo, Apollo impone al-l'uomo la moderazione, mentre lui stesso è smoderato; lo esorta al controllo di sé, mentre lui si manifesta attraverso un "pathos" incontrollato: con ciò il dio sfi¬da l'uomo, lo provoca, lo istiga quasi a disubbidirgli. Tale ambiguità si imprime nella parola dell'oracolo, ne fa un enigma.

E questo, lo avevamo già precedente-mente notato.

In altri appunti sulla profezia, ed in particolare quella savonaroliana si os-servava che " Savonarola prende co-scienza sempre più del suo esser pro-feta, identificandosi con l'archetipo del Profeta, che ama il suo popolo e lo ri-prende, lo sferza, gli ricorda in ogni mo-mento la parola di Dio, e quelli che più ama, di più riprende. In questo senso egli si appropria della parola dei Profeti, intesa come una realtà linguistica uni¬versale capace di adattarsi agli eventi particolari. Le Sacre Scritture sono per il frate un deposito semantico di espres¬sioni attualissime, di validità universale, e a questo deposito attinge per proiet¬tarsi nel futuro senza però mai perdere di vista i presupposti storico-politici che restano sempre il sostrato necessario alla sua profezia. Profezia quindi in vivo e stretto rapporto col presente, quale mo¬mento •logicamente analitico di fattori at¬tuali visti nella prospettiva dei loro ef¬fetti consequenziali. È previsione logica affinata da una dura disciplina spirituale e intcriore. Nella concezione tomista, a cui il frate si attiene, la profezia è dire¬zione degli atti umani, e comporta quindi un'aderenza perfetta alla storia" (G. Di lacovo, Sulla Profezia Medioevale; Alla Bottega, Anno XII, n. 6, Nov-Dic 1974, pag. 69).


Savonarola fu profeta, e grande, anche in senso ellenico, nella disperazione tra¬gica della sua vita e della sua fine. Nella fusione del presente e del futuro, con la consapevolezza d'un passato di sofferenza destinato a ripetersi. Ma fu anche profeta di gioie e di felicità, necessariamente fuse al dolore.

E visse il momento del-l'invasamento, il conflitto interno che è proprio di chi è profeta: "Dice Geremia: ho fatto proposito di non parlare più, Signore, dei fatti tuoi: così io, qualche volta, ho fatto pensiero, quando io sono giù, e detto: io non voglio più parlare né predicare di queste cose, ma voglio starmene e lasciar fare ora Dio: e tut¬tavia, come io sono poi salito quassù, non sono potuto contenermi. Et factus est in corde meo quasi ignis exaestuans, claususque in ossibus meis et defeci, fer-re non sustinens: io non ho potuto far altro. E non posso fare che io non dica, perché io mi sento tutto ardere, io mi sento tutto infiammato dallo Spirito del Signore.
Ma poi, quando io sono giù, io dico a me: io non voglio più parlare di queste cose. E tuttavia, come io sono ri¬montato quassù, non si può tenere queste cose.

O Signore mio, o Spirito, tu non hai paura di persona di mondo, tu non guardi in faccia di uomo, e sia che el si voglia, tu dici la verità a ciascheduno. O Spirito, tu vai eccitando persecuzioni e tribulazioni contro di te, tu vai com-movendo le onde del mare come fa il vento, tu vai eccitando le tempeste. Deh, non fare, Spirito: el non si può fare altro, questa è la conclusione: bisogna fare così" — Pred. 22a sopra l'Esodo — (G. Di lacovo, La Predicazione Profetica di Savonarola; Alla Bottega, Anno XIII, n. 5, sett-ott. 1975, pagg. 52 segg.).


Il "'bisogna fare così" è l'obbedienza ad un impulso più forte d'ogni cosa. È la "Necessità", che non coincide con il cieco agire, ma con l'agire, qui il parlare, il profetare, nonostante tutto.

Che poi il profeta dica cose giuste che tutti sannr e vorrebbero, e che per que¬sto, attiri su di sé la persecuzione ed il disprezzo, questo è il Dioniso, e già ne abbiamo parlato prima. C'è qualcosa di simile e di tragico nelle figure di Savo-narola, di Orfeo, e di tanti altri uomini — che tutti siamo " anche " profeti, ma pochi sono profeti — inchiodati dal dis¬sidio fra conoscere ed agire, fare e sa¬pere, presente, che solo esiste, e passa¬to-futuro, nascenti dalla necessità pratica del porre un limite alle cose, che limiti non sembrano avere.

A Delfi si veneravano "contemporanea-mente" Apollo e Dioniso. Certo, non si trattava soltanto di una differenza for¬male tra il culto di Apollo, eminente¬mente oracolare, e quello di Dioniso, pressoché estraneo alla mantica (in Gre¬cia), bensì della fondamentale autonomia delle due sfere, dei due universi, evocati dall'una o dall'altra divinità: autonomia che rendeva precario il contrasto, mentre
a volte poteva consentire (come a Delfi) l'alleanza. La contemporaneità non da la identificazione, non rende simili, ma uguali.



E proprio quell'autonomia fra la divinità che con la sua sola presenza im¬poneva il pensiero dell'aldilà, e la divi¬nità depositaria dell'interpretazione della parola del "divino", era divenuta impos¬sibile per chi viveva nella notte della "co¬scienza infelice", dopo che gli dei "si era¬no allontanati".

Nacquero allora i due nuo¬vi volti: Apollo e Dioniso, quali simboli di un contrasto permanentemente attivo e insanabile, che ha innanzitutto un dissi¬dio fondamentale nell'accesso al passato — il dissidio fra vivere e sapere, fra ab¬bandono e ragione, il paradossale dimen¬ticare per sapere che, in termini tempo¬rali, diveniva il dimenticare il passato per viverlo nel presente.
Se però eliminiamo dalla proposizione precedente l'aggettivo "paradossale" (o se, almeno, lo conside¬riamo soltanto come attributo della ge¬nuinità dell'accesso al divino), ci ritro-viamo nell'ambito originario dell'antico Dioniso.
Tutta la dialettica fra Dioniso e Apollo si trasforma da linguaggio della nuova mitologia del tempo della "coscienza in-felice" in autentico linguaggio dionisiaco, se eliminiamo i nomi delle due divinità e riconosciamo al loro posto due costanti all'interno dello stesso dionisismo. Come si è già detto, è infatti opportuna defini¬zione dell'essenza dell'esperienza dioni¬siaca quella legge "del Nulla che urge alla forma" che vennà definita da Benn. Ma non si tratta .d-uK-^uirtrii^c tragico e doloroso, bensì più esattamente di un paradosso: nell'epoca in cui gli dèi "non si sono ancora allontanati", il paradosso del divino.
Non lontano dalle esperienze romanti-che della "coscienza infelice" è l'ateismo del marchese De Sade; e soprattutto tale analogia ha verità e valore in quanto l'uno e l'altro atteggiamento dinanzi al divino ("che si è allontanato" — "che non è") stanno sotto il segno di Dioniso. Nel pensiero di Sade la crudeltà e l'esplica-zione di ogni immaginabile attività ses-suale "colmano il vuoto lasciato dall'as-senza di Dio" (come scrive Klossowski nella prefazione ad "Aline et Valcour").
Va subito detto che non si vuole sta¬bilire alcun parallelo, che sarebbe arai-trario e inesatto, tra le décable dei per-sonaggi di Sade e le azioni rituali dei devoti di Dioniso* (tanto più che la componente sessuale del dionisismo è presso-ché assente — come sottolinea Jeanma-rie — nel menadismo).


Allo stesso modo non si può avallare il " Dionisismo " di Sade considerando a-naloghe la ferocia del dio evocato da Eu-ripide nelle Baccanti e quella degli eroi di Sade.


Sade non può essere detto devoto né di Dioniso, né di ogni altro dio: per lui, "Dio" non esiste. Si è fatto riferimento prima alla notte della "coscienza infeli¬ce" appunto per evitare di riconoscere nel comportamento dei personaggi di Sade alcun atto di devozione verso divinità nominate o taciute.

Esiste però per Sade un fondamentale principio di contraddi¬zione — non personificato, presente nella radice dell'essere —, che attribuisce alla soddisfazione dei desideri di crudeltà e di attività sessuali libere da qualsiasi cen-sura caratteristiche di "perversioni" e di "anomalie mostruose", nell'istante stesso in cui egli vi riconosce un comporta¬mento universalmente ideale: il compor¬tamento dell'età dell'oro. Si è probabil¬mente insistito troppo, anche per l'influ¬enza degli studi di psicologia sul cosid¬detto comportamento "sadico", sulla pre¬sunta necessità di infrangere una legge sociale o religiosa, quale condizione es¬senziale della piena soddisfazione per i personaggi "perversi" e "mostruosi" di Sade. In realtà basterebbe pensare al significato profondo di simboli, come il castello o il monastero inaccessibili, ove si svolgono le "mostruosità" evocate da Sade, per intendere che il principio di contraddizione insito nel pensiero di Sade e nel comportamento dei suoi personaggi non è tanto rivolto contro le censure della società, quanto contro l'esistenza uma¬na nella sua interezza.

Il castello o il monastero, isolati dal resto del mondo, sono i nuclei del mondo futuro: simboli di fondazione d'una fu-tura età d'oro, della quale si può dire soltanto che nascerà dalla contraddizione sistematica dell'umano, te dell'umanità come specie.

In questo senso Sade è particolarmente vicino al dionisismo o, più esattamente, la sua esperienza apre una diversa via al "dionisismo" del tempo della "coscien¬za infelice". Anziché evocare il contrasto

Dioniso-Apollo, Sade suggerisce che l'e-sperienza del nulla, se vissuta nella sua pienezza, può condurre alla forma grazie alla forza che appunto è insita nel nulla e che lo spinge verso l'essere. Egli, inol¬tre, riconosce in ogni comportamento umano che abbia come prospettiva la sof¬ferenza e la morte (in quanto conseguen¬za di uccisione, o attività sessuale estra¬nea alla conservazione della specie), una via verso il nulla.


Una spia dell'autentico atteggiamento di Sade nei confronti della "coscienza infelice" è costituita, d'altronde, dal se¬dicente apparato erudito di alcuni fra i suoi romanzi: dalle note che giustificano il comportamento dei personaggi con la citazione di istituti dell'antichità, e in generale dall'orizzonte di un passato in cui gli uomini erano "più liberi" o "più ragionevoli" (più vicini al nulla).
È di nuovo il passato che, per soprav-vivere, dev'essere dimenticato e perciò durare nel presente. Il presente in cui vive Sade ha dimenticato il passato, e Sade lo deplora; ma la fatalità di quel-l'oblio che appare come una degenerazio¬ne (i divieti religiosi e sociali) consente a chi si isola dal presente — nel castello o nel monastero — di vivere il passato e di fondare il futuro. Da questo punto di vista, i simboli dei "luoghi inaccessi¬bili" in cui si compiono "mostruosità" permettono a Sade di spiegare quasi di-dascalicamente il processo dimenticare-sapere, spezzando la simultaneità delle due esperienze e isolando — gli uni nel "mondo", gli altri nel "castello inacces-àAbire-'--- coloro che hanno dimenticato da coloro che sanno.

L'elemento di contraddizione nel com-portamento dei personaggi di Sade è, co-me l'essenza del dionisismo, ciò che con la sua sola presenza impone il pensiero dell'aldilà. Ma l'aldilà di Sade non è un convenzionale regno ultraterreno, bensì — in termini temporali — l'aldilà della specie umana: l'età d'oro o la forma alla quale urge il Nulla.

Se confrontiamo queste proposizioni con il pensiero di Bachofen sull'essenza greca del dionisiaco, possiamo osservare che solo la preoccupazione storica ha im¬pedito a Bachofen di spingere la sua no¬zione del regno di tenebra, cui appartiene



*Le donne di Dioniso si chiamavano mainàdes, « menadi », le forsennate, le furibonde. Il dio stesso mainòmenos, il « furioso », in questo senso lato, non in quello di « pazzo ». // termine deriva da « manìa » = furore — gr. —
la materia e quindi anche la vita, fino al valore di presupposto del comporta-mento "mostruoso" dei personaggi di Sade. Secondo l'interpretazione di Bachofen, nell'esperienza dionisiaca greca la vita appartiene al regno della morte, al regno di Dioniso, dal quale essa scatu¬risce continuamente solo per garantire la molteplicità delle morti. Bachofen affer¬ma, tuttavia, che Dioniso esige la "pro¬fusione vitale".


Egli sottolinea, d'altronde, fino a qual punto la legge che esige tale "profusione vitale" voglia anche la morte, poiché è pagare il proprio debito alla materia, e menziona la crudeltà di coloro che sono soggetti alla forza del dio: le madri che gli sacrificano i propri -figli, le baccanti feroci.

Più di ogni altro storico, Bachofen ha insistito nel configurare Dioniso come " dio delle donne ", persuasore e sedutto¬re dell'animo femminile. Il principio di vitalità appassionata è, per Bachofen, es¬senzialmente femminile. Egli qui è lonta¬no dal pensiero di Sade, e la 'loro opposi¬zione può configurarsi nell'antitesi fra ab¬bandono entusiastico (femminile) alla legge del nulla, e deliberata volontà (ma¬schile) di applicare la legge del nulla. Nel quadro concepito da Bachofen, gli eroi di Sade sarebbero creature " apollinee ", ma¬schili, convertite al dionisismo e convinte a porre al servizio del dio delle donne la loro volontà maschile.

Questa antitesi ha un significato pro-fondo nell'ambito del periodo della " co-scienza infelice ", poiché presuppone ab-bandono e volontà quali norme di com-portamento in rapporto con l'assenza de-gk *Jél'.~ Abbandono è, d'altronde, il com¬portamento fatale di chi, dopo che gli dèi " si sono allontanati ", evoca una nuova mitologia in cui riconosce un nuovo Dio¬niso e un nuovo Apollo: creare un mito si¬gnifica, se il mito è genuino, abbandonar¬si al flusso del mito, lasciarlo spandere in sé. La volontà, invece, nel senso del com¬portamento volitivo dei personaggi di Sa¬de che mira ad uniformarsi alla legge del nulla, nella convinzione che il nulla " urga a una forma " ('alla' forma), esclude la creazione dei miti: Creuzer e Bachofen fu¬rono genuinamente creatori, oltre che stu¬diosi, di miti; Sade non creò alcun mito, bensì fu costretto a subire un mito: il mi¬to del dovere, che con minore esattezza si potrebbe anche chiamare mito del desi-derio, della libidine, e che impose ai suoi personaggi il dovere di esplicare ogni -for-ma di crudeltà e di attività sessuale estra-

nea alla conservazione della specie, affin-chè gli uomini obbedissero senza riserve alla legge del Nulla. L'importanza nel pen-siero di Sade della volontà quale strumen-to per adeguarsi alla legge del Nulla indu-ce spontaneamente a riconoscere nella fu-tura età dell'oro, o nella forma cui urge il Nulla, che sta all'orizzonte dei suoi perso-naggi, un mondo diverso da quello di Scho-penhauer, solo in quanto proiettato nel fu¬turo ed ignoto. Escludendo l'ignoto, alme¬no nei limiti garantiti dalla facoltà profe¬tica, il medesimo discorso riconduce in una tappa successiva al Nietzsche.

Il mondo futuro è profetizzato da Nietz-sche in termini che Bachofen avrebbe parzialmente approvato, ma che, nelle lo¬ro ultime conclusioni, avrebbe certo con-siderato sommamente negativi, a parere di Furio lesi (op. cit. pagg.137 segg.). E' evidente l'angoscia che avrebbe procu¬rato al patrizio di Basilea una profezia se¬condo la quale la dissoluzione sociale egualitaria corrispondente all'avvento so¬vrano di Dioniso sarebbe stata la prepara¬zione dell'avvento delle grandi guide, de¬stinate a dominare le moltitudini di uomi¬ni resi" liberi e uguali dalla sovranità del dio. In questo discorso, tuttavia, il pensie¬ro di Nietzsche e le sue critiche a quello di Schopenhauer sono particolarmente im¬portanti quale conclusione dell'esperienza della " coscienza infelice ", che fu propria anche di Bachofen.
Riprendendo l'aggettivo consacrato da Nietzsche, ma in senso molto diverso, Jeanmarie conclude il suo volume affer-mando che " nella stoica, certo molto i-nattuale del diomsisiUG"^ .iicgazfetó"radi-cale'dei valori tradizionali propria del cri-stianesimo dei primi secoli e rivolta an¬che contro il culto di Dioniso, rappre¬senta probabilmente un elemento di at¬tualità. Così scrivendo, egli stabilisce un parallelismo tra la funzione che egli rico¬nosce peculiare del dionisismo — il rinno¬vamento di una visione dell'universo e del destino — e quella, da lui considerata ana¬loga, del cristianesimo.

Questi grandi movimenti di rinnova-mento spirituale — sostiene Jeanmarie — sono caratterizzati innanzitutto da una violenta e iconoclasta distruzione dei va-lori tradizionali, e solo secondariamente da un rinnovamento ideologico e dall'epi-fania di nuovi dèi.

La storia spirituale dell'umanità è dun-que scandita da movimenti di rivolta e di distruzione che segnano il ritmo profon¬do della vita. Del dionisismo è quindi
inattuale l'ideologia, attuale piuttosto il carat¬tere distruttore e novatore.
La contrapposizione degli aggettivi " at¬tuale "e " inattuale " ci riconduce, d'al-tronde, al nucleo del nostro discorso, e cioè al significato e al valore del tempo, sia nel dionisismo originario, sia in quello nato nella notte della " coscienza infeli¬ce ".

Nel criticare il pensiero di Schopenhauer, Nietzsche si preoccupò, infatti, in modo particolare del significato e della natura del tempo. Se, per Schopenhauer. il passato esiste in quanto l'intelletto mos¬so dalla volontà ne traccia le forme, per Nietzsche occorre considerare il " passato dell'intelletto ", la sua storia o meglio la sua preistoria. In tal modo sarà possibile penetrare la notte in cui affonda quel pas¬sato, o quella parte di passato, che non può trovarsi nel pensiero presente, giacché il pensiero presente lo considera cau¬sa del presente. Questa prospettiva antro¬pologica e psicologica dei rapporti fra pas¬sato e presente (che evidentemente trova paralleli .nelle ricerche di Darwin e di Spencer) conclude in un certo senso il pe¬riodo della "coscienza infelice", poiché tende ad attribuire a quel periodo una pre¬cisa connotazione storica, anziché esisten-ziale. Se il paradosso dionisiaco consiste nella dolorosa coincidenza fra dimentica-re e sapere, il pensiero di Schopenhauer può essere considerato la sua radicalizza-zione, o meglio la sua formulazione a livel¬lo rigorosamente intellettuale e nella pro¬spettiva più di una filosofia della cono¬scenza che di un'esperienza religiosa.


Il presente contiene il passato poiché l'intelletto presente, mosso dalla volontà, concepisce l'unica realtà del, passato, escludendo un passato giacente nel passa¬to. Il periodo della " coscienza infelice " coincide dunque con una condizione esi¬stenziale della quale la scomparsa degli dèi è formulazione in termini mitologici. Ma quando Nietzsche propone di scoprire il passato " dimenticato " (inesistente, dal punto di vista dell'intelletto presente) nel¬la graduale nascita dell'intelletto — nel ...
" passato dell'intelletto ", si potrebbe di-re, se la realtà dell'intelletto non dovesse essere considerata come globaliiià, pur senza trascurare l'interna differenziazione — egli configura la notte della " co-scienza infelice/ " come un determinato periodo della storia e l'allontanarsi degli dèi come un momento dell'alterna vicen-da dei rapporti fra uomo e divino.


In questa prospettiva, i nomi di Dioni-so e di Apollo non sono più, come per Creuzer e per Bachofen, designazioni di nuovi volti divini, nati entro una nuova mitologia corrispondente alla percepita condizione esistenziale, ma simboli — non miti — delle alterne direzioni della storia e delle metamorfosi dell'umanità.

Da Bachofen, infatti, Nietzsche trae non il mito di Dioniso, ma la storicizzazione del dio¬nisismo come istante, ripetuto, delle meta¬morfosi umane, e porta tale schema stori¬co a conclusioni che avrebbero probabil¬mente fatto inorridire Bachofen. Sarebbe profondamente romantico, e probabilmen¬te arbitrario, affermare che il dio/reso da Nietzsche davvero " inattuale " in quanto calato dalla sfera temporale del mito a quella del tempo storico, si fosse vendica¬to con la sua arma consueta: Conducendo, cioè, alla follia l'eterodosso. Lo schema di questo discorso " romantico " è stato però usato — ma con diverso tono e diver¬si fini — da Thomas Mann nel Doktor Faustus: se sostituendo la parola " demo¬ne " al nome Dioniso, Adrian Leverkiihn si rivela un Nietzsche che è entrato in con¬tatto con il dio, ma che ne ha usufruito conducendolo entro il tempo storico, e ha scontato con la follia la sua colpa. La col¬pa di Nietzsche, poiché così bisogna dire, pur s3znz&•• vàìcr parlare di una sua puni-zione, consistette nell'usufruir e storica-mente di Dioniso, nel calare Dioniso en-tro la storia presente e -futura, nel confi-gurare Vavvento sovrano di Dioniso come fase fatale della storia umana, preparatri-ce della venuta delle grandi guide, degli umani sovrani delle moltitudini. Non fu genuina mitologia, bensì tecnicizzazione di un mito: lo sforzo di concludere la notte della" coscienza infelice " determinò la contemplazione dei demoni, anziché il ritorno degli dèi

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Pubblicato da Gennaro di Jacovo

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giovedì 4 giugno 2009

profetismo contestuale nella Firenze di Lorenzo dei Medici

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SAVONAROLA E I SUOI TEMPI

di Gennaro di Jacovo

INTRODUZIONE - Nei precedenti saggi sulla profezia medievale (Rivista Letteraria Alla Bottega Milano Direttore Pino Lucano anni 1972 1978 - 6-XII) e sulla predicazione profetica savonaroliana (4-XIII e 5-XIII) si intendeva mostrare come il «profeta disarmato» intendesse proseguire, più o meno consapevolmente, l'opera sociale e religiosa dei profeti medievali, nel suo continuo richiamarsi al lin-guaggio simbolico biblico, al fine di indurre la cristianità ad una radicale riforma di costume e di intenti religiosi.
Nei secoli XII, XIV e XV si era sviluppata una speciale produzione letteraria profetica, in latino ed in volgare, in versi e in prosa, che mirava ad esprimere preoccupazioni individuali o collettive, proiettate nel futuro, o a pronunciare giudizi e manifestare sentimenti particolari sul passato t sul presente, con l'artificio della pi-edizione.
L'ispirazione e l'atteggiamento di questa letteratura profetica «protestataria» è religioso ed ascetico, ma l'intento è essenzialmente politico e polemico.
I compositori di tali scritti erano uomini di parte che divulgavano le proprie idee di opposizione e di critica al «senso comune» camuffandole da profezie, così come molti uomini di scienza oggi «profetizzano» le sciagure che incombono sull' umanità, ponendosi da una parte in una posizione antiscientista, ma rivestendo dall'altra le proprie previsioni di quell'alone di sacralità di cai si serve la scienza ufficiale. Così i profeti e gli eretici medievali si ponevano contro la Chissà non per distruggerla, ma per rinnovarla, per rigenerarla.

Questo dissenso protestatario anonimo (si temeva la reazione ecclesiastica) si indirizza pre-valentemente in due sensi. Uno, pessimistico, prevede una catastrofica serie di eventi che pre-cederà e provocherà la fine del mondo. L'altro, ottimistico, interpreta i mali e le sventure come premonitrici di un benefìcio rinnovamento ge-nerale.

Quest'ultima tendenza finisce col prevalere, essendo trascorsi senza grossi sconvolgimenti gli anni fatali della «fine del mondo» preannunciati dai profeti «pessimisti».

Possiamo dire, a tal proposito, che la persuasione dell'imminente fine del mondo e dell'avvento dell'Anticristo è una costante di tutto il Medio Evo.
L'aspettativa dell'Anticristo si fa addirittura ossessionante, col propagarsi degli scritti autentici e di quelli apocrifi di Gioacchino da Fiore (fine del secolo XII). Nell'anno fatale, il 1260, tanto atteso e temuto dai gioachimiti, non si verifica però nes¬suno dei sogni previsti dal «calavrese abate Giovacchino, di spirito profetico dotato», come ce io presenta Dante.

Tanto che non pochi in avvenire dubiteranno della capacità profetica dell' abate, e San Tornmaso la negherà decisamente.

Gli Spirituali prima ed i Fraticelli dopo, eredi di quelli nella lotta per la povertà, continuano la tradizione gioachimita.
L'aspettazione di questi profeti è accolta e divulgata anche da numerose sette ereticali, sorte dappertutto in Europa alla fine del '200, nonostante le dure repressioni ecclesiastiche, e miranti al ritorno ad una vita evangelica.
Questo nuovo indirizzo, che prima abbiamo chiamato genericamente «ottimistico», innesta nuova linfa al tema centrale della produzione profetica.

Sarebbe, sì, venuta una catastrofe senza precedenti, ma solo per annunziare l'inizio di un'era nuova, di una nuova vita dominata dalla giustizia e dalla felicità.

Un essere misterioso, un Restauratore del mondo, avrebbe legato le due età, concludendo la prima e iniziando la seconda con la potenza delle armi o con il fascino della, predicazione.
L'umanità, quindi, non avrebbe chiuso i suoi giorni con l'arrivo dell'Anticristo, ma anzi avrebbe iniziato una nuova era, purificata e rigenerata. L'abate Gioacchino accenna qualcosa di simile, ma per lui la miracolosa missione sarà compiuta da un «Riparatore» che uscirà da un ordine di santi monaci eremiti contemplativi.

L'aspettazione è condivisa da laici e religiosi, per quanto sia possibile questa distinzione nel M. Evo.
Per Dante, anche lui «profeta» (cfr. il canto di Cacciaguida, Par. XVII vv. 124 segg.), il personaggio simbolico sarà un Imperatore. Per i seguaci di Gioacchino questo personaggio sarà un papa: il Pastor Angelicus. Non valgono a spegnere le varie aspettative i rispettivi insuccessi di Arrigo VII e Pietro Angelerio da Morrone.

Furono ancora i Fraticelli a mantenere viva l'attesa di un Papa Angelico fino al XIV secolo.
Tale tema messianico, di origine antichissima (si pensi anche al "puer" delia IV ecloga di Virgilio), diventerà uno dei temi centrali della predicazione profetica di Gerolamo Savonarola.

Questo predicatore di riforme «ricicla», quindi, i temi centrali sociali, religiosi e profetici tipici della letteratura escatologica che lo precedeva, proseguendo nel
'400 lo spirito degli eretici medievali, in quel suo continuo richiamarsi ad un'immediata rivelazione di Dio.
Dagli eretici medievali deriva anche l'amore, della Bibbia ed il principio che ogni fedele sia un poco il teologo di se medesimo (v. Luigi Russo).

La sua è una polemica per una vita religiosa più intensa e viva, per il trionfo di una Chiesa più spirituale e meno legata agli interessi materiali.
Preparatore di vita e di riforme religiose, dunque, testimone del disagio spirituale dei tempi suoi, di cui si fa ammonitore e correttore.

Profeta disarmato, insomma, destinato non tanto a precorrere Lutero, quanto ad affermare su un piano sociale il travaglio esistenziale dell'uomo rinascimentale, combattuto fra l'essere e il dover essere.
Questo conflitto trova, in Savonarola e Machiavelli la personificazione delle opposte posizioni, ove si accetti una simile interpretazione delle due personalità.

Savonarola è per gli storicisti un rappresentante del Medio Evo crociato e ohiesastico, capace anche di superare questa dimensione, mentre Machiavelli rappresenta l'uomo moderno, ratiocinante.
Per gli spiritualisti, il segretario fiorentino è solo un pensatore profondo e scaltro ed il Frate un eroe sempre attuale della religione.

In definitiva — secondo Russo — i due non sarebbero rappresentanti di due età diverse, ma di due momenti o atteggiamenti sempre presenti nell'animo umano: religione e ragione, entusiasmo e scienza, poesia e storia. In Savonarola la spiritualità e l'etica medievali ritornano non come cose morte ed anacronistiche, ma come perenni ed attuali esigenze dell'umana vicenda, essenziali componenti dialettiche del divenire storico.

Lo storico e il profeta, dunque, sono due temperamenti antitetici, diversi per natura e per posizione, estremi nelle conseguenze a cui giun¬ge il loro discorso. L'uno, rappresenterebbe la politica pura, l'altro la religione pura.
E -tuttavia, sono figli dello stesso tempo, non solo, ma anche partecipi — anche se assai di rado — l'uno della natura dell'altro.
Così il Frate analizza ed opera tenendo presente la realtà «effettuale», mescolandosi alla politica del secolo.
Dal canto suo, lo storico assume di tanto in tanto le vesti del profeta, specie alla fine del Principe, arrivando a condividere il sogno degtó eretici e dei profeti medievali, ove dice ... «acciò che l'Italia dopo tanto tempo vegga uno suo redentore»: siamo nel tema entusiastico ed irrazionale dell' aspettazione di un personaggio carismatico e mitico, capace ii dare all'Italia un asse to forte ed unitario.
La logica ed il mito vengono a coincidere, arrivando ad un medesimo risultato: la ... teia mania di Savonarola, quindi, non doveva essere altro che la forza della, fede, la presenzia dell'ideale e dell'utopia.

Qualcosa dei genere provano tutti coloro che, pur avendo costruito i loro sistemi politici o filosofici sul più assoluto rigore logico, vuoi perché vogliano vederne i risultati sia pure immaginari, vuoi perché vogliano dare un corpo materiale e tangibile alle loro teorie, inventano o s'immaginano la materializzazione pratica di quelle, proiettandola in un personaggio, in una sistemazione, in uno "status" sociale di là da venire.
Di questa platonica «teia mania» (follia divina, propria dei poeti e dei profeti, ispirati dal Dio per mezzo delle Muse (Fedro, 245 a - Jone, 533d - 535a), sia Savonarola che Machiavelli in misura diversa fanno uso, ma ambedue tengono a precisare come la loro, analisi sociale, etica e politica sia basata sulla osservazione rigorosa e attenta della realtà.

Ambedue avevano assimilato perfetta¬mente la lezione di Socrate, mediata da Piatone, che diffidava assai di ogni tipo di conoscen¬za estranea alla comprensione logica, alla co¬scienza.
In questo modo il «Riparatore» di Gioacchino da Fiore, imbolo di un malessere sociale e re-ligioso, ma fondamentalmente frutto di un atteggiamento irrazionale ed entusiastico, viene recuperato in una prospettiva logica e razionale, pur conservando una carica profetica avve¬niristica, attraverso la mediazione del «Pastor Angelicuss dei fraticelli e del «Veltro» di Dante, fino al «redentore» machiavellico.

Quest'ultimo, non più iniziatore di un'era lelice universale, ma solo di un'epoca più stabile politicamente per le sorti italiane.
In Savonarola, questo rappresenta uno dei temi costanti: aspetta un «Papa Santo» che dia inizio al processo di rigenerazione della società civile e religiosa.
Nel ridimensionamento di questo mito operato da Machiavelli è la barriera che separa, ma non divide, lo storico dal profeta.

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§§ § ... E tuttavia, non è sufficiente questo per dire che l'uno è attaccato al passato e l'altro al futuro, che il pri¬mo è medievale e l'altro moderno.
O non si potrebbe parlare nemmeno oggi di internazionalismo e di unioni sovranazionali, che, nel campo dell'utopia, rappresentano la versione attuale dell'ideale imperiale medievale e dantesco.
Quanto di medievale sopravvive in Savonarola, lo ritroviamo, abbiamo visto, anche in personalità come quella di Machiavelli.



ISTANZE DI RINNOVAMENTO RELIGIOSO -L'Italia del '400 è interessata da uno straordinario fenomeno di rinnovamento spirituale.

E' diffusa l'ansia per una revisione profonda della vita umana, della società, di tutte le strutture e le istituzioni economiche, religiose e politiche.
In terra toscana questa spiritualità innovatrice è particolarmente sensibile, esprimendosi con l'ideale di rinascita civile e religiosa.
Lo sviluppo degli ordini mendicanti, Domenicani e Fran¬cescani, è favorito dalla relativa decadenza dei movimenti benedettini e dalia tendenza dei mona¬steri ad una certa staticità.
I due ordini mendicanti, rappresentanti l'ala irmovatnee o almeno più avanzata del clero, debbono tuttavia combattere solo le opposizioni esterne del clero stesso, attestato su posizioni statiche e conservatrici, ma anche le tendenze interne favorevoli alla chiusura della fase eroica dell'esordio nonché ad un certo accomodamento in chiave conformistica col vivere del mondo, mediante il temperamento dei rigidi statuti originali.

Ma già alla fine del '300 in seno ai suddetti due ordini si sono formate correnti che diffondono il proposito di osservare pienamente le «regole» e di riassumere gli impegni sociali e religiosi tracciati dai fondatori, e di avviare la riforma che doveva ampliarsi dai due ordini e investire tutta la società di un rinnovato lievito evangelico.
Questo accadeva ai tempi dello scisma d'occidente, che denuncia il declino spirituale del papato e favorisce la riaccensione delle speranze. degli ideali, dei propositi di rinnovamento.

In Italia efficace e valida era stata l'azione domenicana.
In Toscana l'azione di Giovanni Dominici fu una continua spinta riformistica del centro fiesolano contro le posizioni conservatrici del centro di anta Maria Novella. L'azione riformistica aveva condotto a percorrere la duplice strada del rinnovamento degli Statuti dell'Ordine e dell'impegno nella società con la predicazione e la fondazione di conventi nuovi.
In questo periodo risorge il convento di San Marco.
Il movimento riformista domenicano denunciava il suo programma di riforma religiosa opponendosi a qualsiasi forma di temporalismo ecclesiastico.

Dal 1445 il convento di San Marco avvia il distacco dalla «provincia» romana, conservatrice, per avvicinarsi a quella lombarda, più aperta alle istanze di riforma e di rinnovamento.

Questa azione di critica attiva nel clero e nel¬la società spinge l'ordine domenicano ad una presenza, ad una testimonianza nell'ambiente sociale e civile.
La riforma religiosa diviene esigenza di conseguente riforma civile.
E' in questo ambiente sociale e politico, dominato dal potere religioso accentrato nelle mani di un papa più che mai dedito a interessi temporali, dalla decadenza di un clero corrotto e mondano, da costumi prossimi alla rilassatezza pagana, che nasce forte la volontà di rinnovare e di riformare e trova, infine, il suo uomo ambiente in Gerolamo Savonarola.

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Savonarola nasce il 23 settembre 1452 a Ferrara.
Fin da giovane prova disgusto per la perversità dei costumi umani. A tal proposito Si conservano sue poesie relative a quel periodo giovanile.
A Ferrara, a 23 anni, studia medicina e pare avviato ad una tranquilla carriera, di medico, sulle orme del nonno Michele, archiatra alia corte d'Este. In quel momentoera lontano dall'idea di farsi frate: «Io dissi mille volte al
secolo che io non mi farei frate».

Dirà, nella terza predica su Ezechiele: ... «Ben mi dolgo cheda principio non credevo, e posso dirvi come Agostino: io ero cieco e amavo la cecità, e l'amaro mi pareva dolce; ero servo e amavo la servitù, dico del peccato. Io me ne andavo all'inferno, amavo il mondo e la carne e te non conoscevo, Signore mio, però ti ringrazio che m'abbia illuminato».

Era, questa di Savonarola, probabilmente la «crisi» comune alla maggior parte dei giovani. In questi anni di travaglio interiore, egli cerca¬va una via, una linea da seguire e un senso da dare alla sua vita.

E' come una barca senza vela e lamenta in uno scritto del periodo la con¬fusione che vedeva intorno a lui: ... «Vedevo molti che avevano in bocca Giove, Giunone, Venere e Cristo insieme.
... Io stavo stupefatto. Guardavo i prelati e non sapevo discernere se erano signori o sacerdoti. Per la qual cosa stavamo in grandis. sime tenebre».

La memoria degli anni giovanili sarà sempre viva in Savonarola. Sbocco di questa crisi, di cui fa parte il suo amore fallito per Laudomia Strozzi, è la decisione improvvisa, e tuttavia intuita dalla madre, di partire nottetempo per Bologna. Qui, nel chiostro di S. Domenico, dopo aver preso l'abito domenicano, per volere dei suoi superiori studia filosofìa e teologia, prepa-randosi alla sua futura opera di predicazione. Dopo quattro anni di studi torna a Ferrara per un anno; quindi viene eletto all'ufficio di lettore nel convento di S. Marco a Firenze.


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FIRENZE NEL '400 - Nei tempi in cui vi mette piede il Frate, Firenze è la più ricca, colta ed elegante città d'Italia.

L'avvento del nuovo spiri¬to umanistico è già stato delineato ed assunto nella coscienza della città, anche se solo nei decenni futuri si realizzerà in tutte le sue mani¬festazioni caratteristiche.

L'incremento economico e commerciale e lo splendore, delle arti fanno di Firenze, sotto la guida politica dei Medici, un modello culturale per tutta l'Europa.
Il periodo rinascimentale, visto nel suo insieme, mostra tuttavia alcuni aspetti interessanti, contrari all'opinione comune corrente.
In una sua analisi storico-economica il Lopez parte dalla constatazione della differen¬te relazione fra «economia» e «cultura» nell'Alto Medio Evo e nel Rinascimento.

Questo storico individua nell'Alto Medio Evo un periodo di evoluzione demografica, di costante progresso tecnologico, di espansione commerciale, e paragona la «rivoluzione commerciale» del Medio Evo alla «rivoluzione industriale» del XVIII secolo.

Protagonista di questa rivoluzione è la borghesia, una nuova classe dirigente selezionata in ba¬se al censo, antagonista della vecchia nobiltà feudale.
In ogni campo dell'attività umana si ha uno sviluppo analogo e conseguente, tanto che questi cambiamenti sociali, economici e culturali del Medio Evo rappresentano l'indispensabile preparazione al Rinascimento.

Questo è a sua volta, contrariamente a quanto si crede, un periodo di ristagno e di depressione demografica, economica e commerciale.
Si perfezionano gli strumenti di produzione medievali, si diffondono le innovazioni tecnologiche di quel periodo che qualcuno ancora considera oscuro e barbarico, ma so-stanzialmente non si scopre nulla di nuovo.

Lo stesse Leonardo — il più emblematico fra i geni rinascimentali — resta un "profeta tecnologico" isolato ed incomprensibile ai contemporanei.

Con la restrizione degli orizzonti politici, tipica del Rinascimento, con l'aumento dei gravami fiscali e la restrizione dei mercati, i cui benefici sono monopolio di una classe nobile-borghese sempre più ristretta, si tocca il fondo della de-pressione, a cui segue un periodo di stabilizza-zione e di assestamento.

Tale depressione avreb¬be causato la corrente «pessimistica» di Machia¬velli, Leonardo da Vinci e Savonarola.
Inversamente proporzionale allo sviluppo economico, appare quello artistico ed artigianale, tanto da far parlare il Lopez di aumento del «valore» di mercato della cultura umanistica col declinare dei tassi di interesse.
Secondo questa interpre-tazione, lo sviluppo culturale ed artistico sarebbe l'esito delle operazioni di «investimento» fatte da uomini d'affari e di stato che comprano e ricercano oggetti d'arte, incrementandone la produzione.

Capitale morale di questo fenomeno di portata europea è Firenze, come già accennato. In questa «capitale» internazionale della cultura, la repubblica mantiene solo formalmente le pro¬prie istituzioni, sotto una signoria che riesce a realizzare la politica economica delle oligarchie commerciali senza perdere un certo contatto con gli strati popolari.
La Firenze sacra, nella metà del '400, vive del connubio di una componente popolare con una signorile e aristocratica. Da una parte la semplice linearità della parola di S. Antonino, dall'altra l'intensa concéntrazione culturale dell'accademia Platonica di Marsilio Ficino e Fico della Mirandola.




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SAVONAROLA E FIRENZE - La partecipazione popolare alla vita pubblica, con le sue componenti sacre e civili, è attiva e intensa.

Quando viene nella città per la prima volta, il Frate trova una società laica e religiosa estremamente mobile, inventiva, agile, attenta e priva di pregiudizi, ma pur tenacemente attaccata alle prò prit tradizioni.
Nel giudizio ancora approssimato del giovane predicatore ferrarese, quella inventiva, quella sicura presenza nel mondo, quella liberalità, presentavano aspetti pericolosi di abito terrestre, di compiacenza mondana.

Egli avverte i rìschi ed i limiti dell'umanesimo nella tendenza ad eleggere l'uomo a centro e misura di tutte le cose, tendenza che facilmente conduce alla compiacenza verso la ricchezza, i piaceri, le "vanità" di questo mondo e verso il rifiuto dell'ideo¬logia sociale e dell'aspetto soprannaturale del messaggio di Cristo.

Le sue prime prediche non hanno successo perché è tumultuoso e violento nel parlare e, cosa assai importante per i fiorentini, perché è caratterizzato da un accento sgradito ad un uditorio avvezzo a ben altre eleganze stilistiche e linguistiche.

Egli era ancora iontano dall'aver preso contatto con le disponibilità spirituali della società fiorentina.

Dal 1483 al 1489 è lontano da Firenze.
Questo periodo gli serve probabil¬mente per elaborare il suo tema riformistico: il rinnovamento parallelo della società cristiana e dello stesso ordine politicò; una riforma, quindi, religiosa e politica, di fede e di costume.

Nel 1485 lo troviamo a San Gimignano, dove predica proponendo questo argomento ...
«che la Chiesa aveva a essere flagellata, rinnovata, e presto».

Per la morte del padre Niccolo, scrive alla madre pregandola di e il figlio frate
ormai «perduto» per la famiglia terrena e vota-to alla partecipazione a quella divina.

E' il segno della sua scelta definitiva.
Non si considera ancora un "profeta". Nelle sue prediche, fino al '92, ricopre la sua lluminazione proifetica con le parole delle Sacre Scritture ...«non sum Propheta!»: «Sappiate — dice — che io non vi dico ciò come profeta, ma congetturando dal¬la Scrittura che la Chiesa aspetta un grande flagello».

E' un accenno esplicito alla negazione del «furor» come componente primaria della profe¬zia ed una altrettanto chiara affermazione della base essenzialmente biblica e scritturale della sua predicazione profetica.

Nelle sue prediche è sempre presente la minaccia di una punizione come elemento costante di monito.
Questo «flagello», come lui amava dire, era prevedibile per varie ragioni, che sono anche le ragioni della sua accusa, squalifica e condanna della società: le nequizie degli uomini, il fatto che Dio manda cattivi pastori alla chiesa, il fatto che Dio manda la profezia, il venir me¬no dei buoni alla loro condizione di uomii' scadimento della fede, il dispregio dei Santi, lo scadimento del culto.

Nel 1487 viene eletto «maestro degli studi» nello Studium di S. Domenico a Bologna, dove aveva studiato.
Si trattiene quindi a Ferrara per due anni, poi predica l'Avvento a Brescia, ove sperimenta il suo nuovo stile, sviluppato in anni di pratica e di meditazione.



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SAVONAROLA E I SUOI TEMPI
autore:
Gennarino di Iacovo

2^ parte


TEMI RELIGIOSI E SOCIALI DELLA PREDICAZIONE SAVONAROLIANA - Intanto Lorenzo dei Medici, per compiacere Fico della Mirando¬la, nel 1489 chiede all'Ordine che Savonarola venga inviato a Firenze.

Questo fa ritorno nella città nel maggio del 1190.
Nell'agosto dello stesso anno tiene Te « Prediche dell'Apocalisse » in S. Marco, iniziando la sua attività di implacabile accusatore del sistema politico basato su rigidi principi oligarchici vigente nella città in particolare, eà in generale del malcostume dilagante nella chiesa e nella società.

La sua predicazione si ricollega nei titoli ai cicli e alle stagioni dell'anno liturgico: Avvento, Quaresima, Pasqua e Pentecoste.
Le sue prediche si fanno sempre più ricche, ampie 3 siste¬matiche, fino a divenire una parola assidua, un discorso unitario, legato, continuo.

Il fondo biblico rimaneva per il richiamo costante alla Scrittura, al tono avvenirìstico e pro-fetico proprio dei testi sacri.
La sua fantasia, piena di ricordi biblici, non doveva cessare mai di elaborarli e di esaminarli.
Ma non basta una veste stilistica sacra ed una sia pure notevole carica mistica per fare di un
un profeta.

Ad una natura da mistico, da « veggente » sensibilissimo, il Frate aggiunge un attento e pratico senso della realtà.
E non può, del resto, essere profeta e annunziatore di cose future chi non conosce a fondo il presente in tutte le sue componenti.
Gran parte delle sue previsioni,come quelle intorno alla discesa di Carlo Vili e all'espulsione dei Medici, si dovevano, più che alla sua natura profetica, alla pro¬fonda conoscenza che egli aveva delle circostan¬ze attuali della politica fiorentina e italiana più in generale. E se nei suoi vasti disegni pensava alla Chiesa tutta, che avrebbe dovuto tornare alla semplicità ed alla severità degli antichi costumi, non trascurava la sorte dei singoli stati, non meno bisognosi di riforme che la Chiesa stessa, ove per « riforme » non si intenda semplice miglioramento formale; ma sostanziale e rivoluzio¬naria rigenerazione.
Lorenzo dei Medici vedeva con apprensione il Frate conquistare gli strati malcontenti della città.
Il « predicatore dei disperati », che tutto vo¬leva giudicare, che criticava il papa ed il siste¬ma ecclesiastico per la loro dissolutezza, lo insospettiva e preoccupava, anche perché era in buoni rapporti con il papa ed aveva un figlio por-porato.

In effetti la predica del "Frate, in questi anni per lui cruciali, presenta una implicazione « politica » sempre più marcata e impegnata.
La carenza di fede, la decadenza dei costumi, le sven¬ture presenti e future venivano di contìnuo chia¬mate in causa con appelli e attribuzioni precise di responsabilità.

Quello del Predicatore diviene un appello forte e incessante alla penitenza, una denuncia acre» violenta a volte, della corruzione dei costumi,della ricerca sfrenata di beni individuali e anii-comunitari.

Al cospetto del regime mediceo, mondano e « secolarizzato M, di fronte ad un ambiente aperto da un lato al paganesimo dei canti carnascialeschi e dall'altro alla mistica vena delle liriche religiose, teso alla soddisfazione materiale, immerso nella ricerca del successo economico, Savonarola grida l'esigenza di un radicale cambia mento etico e politico, religioso e sociale, sulla linea dell'insegnamento di Cristo.

L'esigenza di rinnovamento, uscendo dal recinto stretto dei cenobi, delie chiese e dei circoli culturali neoplatonici, investiva la massa, pas¬sando ad un piano pubblico, vasto, collettivo.



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LA REAZIONE MEDICEA - Nella Quaresima del 1491 il Frate predica per la prima volta nel Duomo di Firenze.
In S. Maria del Fiore assistono alle sue prediche più di diecimila persone.
Alcune di esse trascrivono le prediche con una specie di rozza tachigrafìa e provvedono a diffondere in città i manoscritti.

Lorenzo il Magnifico comprende che si sta formando un vero e proprio « partito » nella scia del « predicatore dei disperati », come lo chiamava la gente da qualche tempo.
I niù fedeli seguaci suoi, infatti, sono i poveri, che si sentono traditi dagli uomini della chiesa, preoccupati solo del proprio benessere.

Il « popolo minuto », su cui gravano le manipolazioni finanziarie dei Medici, e chiunque si senta sdegnato per la generale corruzione e dominato da un ansioso e indefinibile senso di attesa per un radicale cambiamento, fa sua la parola del Profeta.
La cosa che infastidisce di più Lorenzo è la polemica fratesca contro gli ...
"intellettuali che formano la medicea « fabbrica del consenso », ornamento e nello stesso tempo parte integrante del suo modo di governare.

Senza considerare che l'attacco alla corruttela dell'ambiente ecclesiastico colpisce soprattutto il papa, Innocenzo VIII, con lui imparentato.

Ma il Magnifico non vuole ricorrere alla maniera forte, perché, oltretutto, ha stima del Frate.
Cerca prima di arrivare ad un compromesso.
Fallito questo tentativo, lo fa ammonire perché parli poco « de futuris », facendogli anche capire che potrebbe farlo allontanare dalla città.

« Io sono forestiero — gli fa sapere quello — e nondime¬no resterò qui, mentre egli se ne andrà prima di me ».
E' una risposta profetica.
Lorenzo morirà un anno dopo (1492).

Comunque, scoraggiato anche dalle critiche che i frati stessi gli rivolgono, Savonarola decide dì cambiare i temi centrali delle sue prediche.
Medita per un certo tempo (siamo alla Quaresima del 1491) e infine decide di perseverare nella linea già tracciata, pronunciando una « spaventosa predicazione » in cui attacca Lorenzo direttamente, denunciandone gli abusi amministrativi.
Di nuovo gli si minaccia la cacciata da 'Firenze.
Ma di nuovo il Magnifico non vuole usarere le maniere forti.

Preferisce dare incarico al predicatore Mariano da Genazzano di controbattere le accuse del Frate dal pulpito del monaste¬ro di S. Gallo, di cui era rettore.
Ma fra' Mariano, predicatore eccellente, scopre troppo il gioco e finisce con l'infastidire l'uditorio.

Nello stesso anno Savonarola viene eletto priore di S. Marco (1491).
Lorenzo moriva l'anno appresso.
Nel periodo immediatamente successivo gli sforzi del Frate si concentrano nel tentativo di rendere il convenvo di S. Marco indipendente dalla Congregazionj Lombarda.

Piero dei Medici — figlio e successore di Lorenzo — appoggia questo tentativo, perché la cosa lo avreb¬be favorito nelle sue aspirazioni ad un governo regionale. Grazie all'appoggio del cardinale Carafa, il Generale dell'Ordine — Gioacchino Tor-riani — acconsentì alla richiesta.

In seguito Sa-vonarola avrebbe voluto creare intorno a S; Marco una nuova Congregazione, nucleo e centro ispiratore della riforma religiosa e politica da e-stendere a tutta l'Italia.

Ma proprio in questo periodo si rompe il delicato equilibrio politico italiano. Carlo VIII, assunto il governo di Francia, piuttosto che verso i confini orientali e i do¬mini ereditali della casa di Borgogna (obiettivi territoriali principali di Luigi XI), preferisce concentrare le sue forze militari nella conquista del lontano regno di Napoli, che l'estinzione della casa d'Angiò lasciava in credila alla monar-chia di Francia.
Dall'Italia giungono al monarca francese le esortazioni di Ludovico il Moro, Signore di Milano, desideroso di sbarazzarsi di Ferdinando D'Aragona, cne difende i diritti dell' erede legittimo al Ducato di Milano, Gian Galeazzo Sforza.

I nemici di Alessandro VI (Rodrigo Borgia) aspettano dal canto loro aiuto contro il funesto papa, e tra questi spiccano il cardinale Giuliano della Rovere e lo stesso Savonarola.
In Firenze Piero, ben disposto verso gli Aragonesi, perde frattanto il favore che Cosimo e Lorenzo avevano guadagnato alla casata dei Medici.
A¬menta, invece, il prestigio di Savonarola.

I conventi di S. Domenico in Fiesole, S. Caterina in Pisa e S. Maria del Sasso in Prato vengono uniti a S. Marco: nasce così la Congregazione Toscana, detta poi di S. Marco, con il Frate come Vicario Generale.

Carlo VIII inizia la sua discesa indisturbata verso Napoli e Piero dei Medici gli consegna in atto di resa le chiavi delle fortezze più importanti dei domini fioren¬tini, assentandosi dalla città per andargli incontro.

Il popolo lo scaccia dalla città, non appena fa ritorno a Firenze.
In questo frangente, Savonarola evita che si infierisca contro la corrente dei Bigi o Palleschi, favorevole ai Medici.
Ma questa clemenza, l'inclinazione verso il popolo, l'ingerenza nella politica cittadina da parte del Frate ed il crescere del suo seguito, condizionano la formazione di due correnti, l'una a lui fa-vorevole, detta dei Frateschi o Piagnoni, e l'altra contraria, detta degli Arrabbiati, appoggiata e incoraggiata dai Palleschi.



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LA REPUBBLICA SAVONAROLIANA - Non secondaria causa del diffondersi e manifestarsi di una forte opposizione al Frate risulta essere la indecisa e disgraziata politica di Carlo Vili nei confronti di Firenze. Il re, invocato nelle predi-che de! Savonarola coma un Ciro novello destinato a instaurare una nuova era, per abbattere la Signoria Medicea e ristabilire un regime repubblicano, fa di tutto, una volta venuto, per irritare i fiorentini.

Tuttavia l'opera diplomati¬ca del Predicatore favorisce un accordo tra Firenze ed il re, che aveva già più volte minaccia¬to la restaurazione della Signoria Medicea e ri¬chiesto contributi finanziari cospicui alla città.

Purtroppo Pisa, approfittando del passaggio del re, si ribella al dominio di Firenze.
Superati i malintesi e gli incidenti, il 25 novembre 1494 Carlo VIII e i rappresentanti delegati della Repubblica fiorentina firmane i patti di accordo opportunamente modificati.
Savonarola parla personalmente al re, che aveva per lui grande rispetto, e porta tutta la faccenda ad una soluzione soddisfacente per la repubblica fiorentina.
Proprio in questo periodo il predicatore Domenico da Ponzo viene chiamato a predicare in Firenze dagli oppositori del Profeta, che si sentivano più forti a causa della perdita di Pisa e del caotico svolgersi di tutta la vicenda che aveva provocato il grave scacco al prestigio cit¬tadino.

Ma nonostante l'opposizione, il peso dei frateschi nella vita pubblica tendeva a salire.
E' evidente la volontà di attuazione graduale della riforma savonaroliana nel suo impegnarsi sem¬pre più deciso nella vicenda politica del « reggi¬mento della città ».

Nel 1495 il Frate, nelle prediche dell'Avvento sopra Giobbe, insiste sulla necessità di placare gli animi e preparare la via della pace in Firenze, ravvivando i traffici per dar lavoro ai popolo mi-nuto, largheggiando con le elemosine, fondendo gli ori e gli argenti delle chiese per farne pane per i poveri ed i disoccupati.

Nelle prediche della Quaresima affronta il problema della guerra che i « tiepidi », cioè i cattivi prelati e religiosi, andavano preparando contro di lui.

Questa sareb¬be stata più pericolosa di quella, aperta e palese, degli Arrabbiati, poiché aveva radice nell'ambiente ecclesiastico più riservato e impenetrabile e si alimentava di timori, sospetti, gelosie di vecchia data.

Il Frate avverte la presenza oscura di questa guerra sotterranea, ma non per questo smette di condannare e fustigare i « tiepidi ».

Intanto Carlo VIII viene abbandonato da Ludovico il Moro, che assieme a Ferdinando il Cattolico, Massimiliano d'Asburgo, Venezia e Alessandro VI forma una lega contro il re di Francia.

Alle inimicizie di ordine religioso e sociale contro Savonarola si aggiungono ora forti pressioni perché entri in questa lega antifrancese.

A Firenze, il Duca di Milano conta sull'opera diplomatica e spionistica di Somenzi, suo agente, che provvede ad allacciare rapporti con i « tiepidi » in vista di un'azio¬ne coordinata contro il Frate, uomo da eliminare per guadagnare Firenze alla lega.

Le accuse rivoltegli sono di aver tassato di una decima il clero, di aver soppresso la proprietà privata dei monaci, di aver proposto di fondere gli ori e gli argenti delle chiese per farne pane per i poveri. Sono accuse inconsistenti, ma il fattore politico, e cioè la posizione di Firenze incline ad appog¬giare Carlo Vili e a non entrare nella lega, le ag¬grava.

All'azione di diffamazione interna dei Palleschi, e soprattutto degli Arrabbiati, si aggiungevano le inimicizie, ben più feroci e più organizzate nel metodo, vestite di panni religiosi e imbevute di deteriore macchinazione politica. Savonarola è ora un personaggio centrale della politica ita¬liana, e le accuse contro di lui cominciano a giungere al papa Alessandro VI, già infastidito dalla sua insistente voce accusatrice che attacca spesso direttamente la corte papale dei Borgia.

Carlo VIII intanto, con inaudita facilità, conquista il regno di Napoli, ma si vede costretto, minacciato dalla lega formatasi contro di lui, a riguadagnare rapidamente la via delle Alpi.
Durante il viaggio verso la Francia si ferma a Roma, ma il papa si guarda bene dal farsi trovare nella sua sede: prudentemente si è allontanato da Roma.

Il re prosegue verso il Nord.
Si ferma a Siena, ove Savonarola riesce a parlare con lui incontrandolo a Poggibonsi.
Qui, il re mostra venerazione e rispetto per il Frate, promettendogli non solo che non sarebbe passato per Firenze, ma che avrebbe anche restituito alla città le fortezze imprudentemente consegnategli da Piero dei Me¬dici.

In questo momento il prestigio di Savonarola in Firenze diviene grandissimo, tanto che persi¬ne gli Arrabbiati non si fanno più sentire.
La riforma politica e di costume progredisce parallelamente a quella culturale.

Nel convento di S. Marco era nata l'Accademia Marciana, fondata da Pico della Mirandola e dal Poliziano, ove si coltivavano studi letterari e filosofici. L'economia si rinvigoriva, il commercio era in espansione.


Carlo VIII, però, non tiene fede alla promessa di restituire Pisa e le altre città. Così l'opposizione riprende vigore. Perso il regno di N¬poli, ripreso da Ferdinando II d'Aargona, il re di Francia riesce a raggiungere le Alpi dopo aver fronteggiato l'esercito della lega a Fornovo sul Taro (1495).




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ALESSANDRO VI E SAVONAROLA - In questo periodo il Frate è malato, ma continua a predicare dal pulpito: « Frate, frate, tu cerchi un altro male che il medico non ti potrà guarire ».

Il 21 Luglio 1495, Alessandro VI gli ordina di recarsi a Roma.

Anche se il breve (lettera ponti-ficia) del papa contiene degli elogi, risponde di non poter obbedire per due ragioni: la prima è la malattia che lo affligge, la seconda il timore di essere ucciso per via: timore fondatissimo, avendo già subito un attentato alla vita.
E' in questo periodo che sono stampate le sue profezie sotto il titolo Compendio di Rivelazione.

Contemporaneamente Carlo VIII firma a Torino con ambasciatori fiorentini un documento con cui si impegna di restituire a Firenze le città date in pegno da Piero. Verrà però restituita solo Livorno.

Il 9 Settembre del 1495 arriva a Firenze un altro breve del papa, di tutt'altra pasta del pre-cedente.

Il Frate viene accusato di propagazione di eresie, errori dogmatici, sciocchezze ed in più di disobbedienza al pontefice, avendone ri-fiutato l'invito a rectusi a Roma. Risponde con una lettera monumentale in data 29 Settembre, confutando le accese contenute nei breve, che presentava « non meno di 14 errori e non più di 18 », e indirizzato « al Priore e al Convento ; e « di eretica perniciosa dottrina ».

La scomunica è estensibile a quanti ascoltino le sue prediche o con lui conversino, o in aleuti modo io favoriscano.

Savonarola, accusato anche di clisobbedienza, in merito ai decreto di scioglimento della Congregazione di S. Marco, decreto che prevedeva la scomunica in caso di opposizione, risponde al papa con una lettera di autodifesa. li pontefice ed il Carafa, ora nemico del Frate, sembrano sul momento positiva-mente colpiti dalla lettera.

Nella vicenda, la Signoria appoggia il Frate, perché è ancora gelosa della sua autonomia politico amministrativa, tantio è vero che nega il salvacondotto al messo incaricato dal papa della consegna dei brevi di scomunica.
Quando i brevi giungono a Firenze, solo cinque chiese li pubblicano.

In una epistola « contro la scomunicazione surrettizia nuovamente fatta » indirizzata « a tutti i cristiani e diletti da Dio », in data 18 Giugno, Savonarola mostra la scomunica non essere valida, perché fondata su falsi presupposti avanzati dai suoi nemici, e cioè sopra un'assurda accusati di eresia e sopra una inesistente disobbe-dienza: disobbedienza non reprensibile, se pur vi fosse stata, perché la Congregazione Tosco-Romana non era stata costituita per zelo di religione, ma per perseguitare lui solo.

Ludovico il Moro, fattasi leggere la scomunica e la dnifesa del Frate dai suoi ambasciatori venuti da Firenze e da Ferrara, dice coi suoi consigUeri « che mai videro la più sciocca cosa ».

Ma Frate Vincenzo Bandelli, teologo e futuro Generale dell'Ordine, pur essendo solito non contraddire il Duca, dice « esser bone ragioni » quelle ad¬dotte dallo scomunicato.
A Firenze i Piagnoni, considerando invalida la scomunica, continuano a frequentare le funzioni e le prediche del Frate in S. Marco.

La condanna papale è invero arma potente in mano agli Arrabbiati, data loro dalla massima autorità religiosa del mondo cattolico alla fine di una lotta prima grossolana, poi sempre più insidiosa e sottile, condotta ed appoggiata da chi, sentendosi pubblicamente accusato, aveva fatto della distruzione del Profeta la ragione della propria tranquillità, la condizione necessa¬ria per la propria conservazione.

Popò dopo questi fatti, muore il primogenito di Alessandro VI, che ne resta terribilmente scosso, tanto che pare voler mutare vita e iniziare la riforma della chiesa, e si mostra anche ben disposto nei confronti di Savonarola, che da parte sua gli fa sapere che intende aiutarlo nell'opera di rinnovamento dell'apparato ecclesiastico.

Il papa arriva persine a dire, alla presenza del cardinale di Perugia, che gli dispiaceva la pubblicazione della scomunica « et erat omnino praeter mentem suam ». Ma « deposta prima la buona intenzione e poi le'lacrime, torna a far peggio di prima ».
Durante la sua « crisi di rettitudine » ha anche deputato 6 cardinali « pro reformanda Ecclesia ».


La causa del Savonarola è affidata a questi sei cardinali riformatori.
A poco a poco i rap¬porti fra Alessandro VI ed il Frate tornano a farsi tesi.

Questo riceve un nuovo invito a recarsi a Roma per render conto del suo operato, assieme alla formulazione di alcune condizioni che, se rispettate, avrebbero permesso la revoca della scomunica-


Gli Arrabbiati in questo periodo accolgono la sfida della 'prova del fuoco' avanzata da Fra Domenico, seguace di Savonarola, come una buona occasione per screditare il Frate: hanno buon fiuto.

Le motivazio¬ni della prova sono queste: « Che la Chiesa ave¬va bisogno di rinnovazione; che sarebbe stata flagellata e rinnovata; che pure Firenze sarebbe stata flagellata, ma per poi rinnovarsi e rifiorire; che tutto ciò sarebbe stato in quei tempi; che la scomunica non era valida e chi non la osservava non faceva peccato».

Dispiace a Savonarola che la semplicità di Fra Domenico sia caduta nel trabocchetto: le sue idee di rinnovamento, di riforma, saranno sottoposte all'esame consistente in una prova di carattere decisamente medievale, risalente ad usi barbari¬ci ormai superati.

Ma ormai gli avvenimenti non sono più con-trollabili.

In luogo della legge e del ragionamen-to, nella città regnano l'odio di parte ed una specie di invasamento collettivo che richiede una soluzione emotiva e spettacolare alla vicenda.

Tutta la città vuole l'esperimento; tutte le fazioni sono d'accordo.
I preliminari sono estremamente confusi.
A questo punto Fra Francesco dichiara di voler sostenere la prova con Savonarola. Nessun altro può sostituire Fra Domenico, che ha personal-mente accettato la sfida. Come se non bastasse, un altro frate di S. Marco, Mariano Ughi, lancia « in proprio » una sfida personale, dichiarandosi disposto alla prova del fuoco in difesa delle tesi savonaroliane, contro qualsivcglia dei Minori Francescani.

Alla fine di questa fanatica contesa, restarono sul campo Fra Domenico Buonvicini, seguace di Savonarola, e Fra Giuliano Ronconelli, designato da Francesco di Puglia a scendere in campo al posto di Fra Mariano.

Il bello è che Fra Giuliano è assente dalla città ed ignora ogni cosa.
Certamente, Savonarola si mostra stranamente indeciso in tutta questa faccenda, forse per un residuo di credulità in una simile prova, o forse per un momento di stanchezza nel pieno di una lotta tanto aspra condotta al limite dì ogni umana resistenza.

Le condizioni della prova erano che il principale attore della parte perdente 8 tutti i suoi seguaci avrebbero dovuto lasciare la città.

Se fossero bruciati ambedue gli sfidanti, solo il Frate sarebbe stato bandito.
La prova però non viene effettuata per l'assenza di Fra Giulilano, che indugia e non si decide a presentarsi sul luogo della sfida.
Per tutto il giorno i Minori Francescani con vari pretesti ritardano l'inizio della prova. Infine, quasi sul far della sera, una violenta grandinata spinge tutti a casa. ...

Anche se i Francescani hanno cavillato' dal mattino fine a sera, mentre tutto era pronto per la «prova del fuoco», agli occhi del popolo Savonarola appare il perdente, giacché ognuno si aspettava un suo plateale prodigio, un evento spettacolare e miracoloso. § §§
§§ §
La delusione per lo spettacolo mancato sarebbe stata presto ripagata.

Privato della predicazione, colpito dai brevi papali, osteggiato dalla Signoria, perduto il favore del popolo come per Caio e Tiberio Gracco, senza alcuna colpa, con quel 'martirio' del resto che lui ha sempre previsto, e che aspetta come il completamento fatale della sua vita di Profeta.

Invano Luca degli Albizzi cerca di persuadere i Piagnoni ad organizzarsi per la difesa.

Il mese di Aprile trova così i Piagnoni del tutto impo¬tenti e privi di qualsiasi capacità di azione.

Nella messa della Domenica dell'Ulivo, il Frate, sentendo prossima la morte, dice:
« Signor mio, ti ringrazio perché in questi tempi tu ini vuoi fare a tua
similitudine ».

La certezza del martirio, come già si è detto, era sempre stata presente in lui.

Già nell'estate del 1496, rifiutando l'abito cardinalizio, aveva detto: ...
' Un cappello rosso io voglio, quello dei martiri ».

Nell'ultima fase della sua attività profetica, quella della «voce di Lazzaro », egli è convinto più che mai dellla sua prossima fine.

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Nella settimana di Passione, mentre la folla riaccompagna Fra Mariano Ugni in S. Marco, dopo la predica in S. Maria del Fiore, un certo Antonio Alamanni batte sulle panche della chiesa gridando: « Andatevene con Dio, Piagnoni! ».

Scoppia un tumulto nel tempio e si forma un'accozzaglia di facinorosi che giunge a S. Marco.
Vengono uccisi un giovinetto ed un uomo.
Verso le 22 la Signoria comunica al Frate l'ordine di uscire dalla città entro dodici ore, provvedendo ad informarne il papa.
Gli Arrabbiati assediano S. Marco.
I Piagnoni, disorganizzati, nulla fanno per difendere se stessi ed il loro Predicatore, ma se ne stanno chiusi nelle chiese.

La Signoria, naturalmente, lascia che le cose procedano da sé, permettendo ogni eccesso agli Arrabbiati.
Poche decine di animosi, intanto, difendono S. Marco lanciando tegole dai Letto.
Gli assediati sono vanamente fiduciosi nell'intervento di una Signoria che ormai era tutt'uuo con quelli che stavano per appiccare il fuoco alle porte del convento.

Francesco Valori, uscito per chiedere rinforzi, si rifugia in casa.
Qui gli Arrab-biati lo uccidono insieme alia moglie.

Un bando della Signoria dichiara « ribelli » tutti i laici assediati nel convento.

Durante l'assedio, Savonarola prega in sagrestia, e quando S. Marco viene occupato riceve l'ordine eli presentarsi nel palazzo della Signoria.

Poco prima aveva escluso la possibilità di. darsi alla fuga per rifugiarsi presso il re di Francia,Carlo VIII.

In questa occasione, poiché il Frate sembra esitare di fronte alla proposta di fuggire, gli si avvicina Fra Malatesta, che gli dice: « Non deve il pastore metter la vita per le sue pecorelle?».

Al frate che ha parlato, alcuni dei confratelli rimproverano subito un atteggiamento torbide e infido.
A lui sembra riservata la parte di Giuda nella passione di Savonarola.
Ma questo prende le sue parole come la voce stessa della coscienza: lo abbraccia, e si preparia a seguire i messi del governo, non senza aver prima ricevuto i Sacramenti.

Fra Domenico e Fra Silvestre lo seguono in Signoria, fra gli insulti della folla.
V'è anche chi. dopo averlo percosso, gli grida:
... « Profetizza chi ti ha battuto! », come fu fatto a Cristo.

E con la storia del Figlio dell'Uomo la vicenda savonaroliana sembra avere davvero molto in comune, specialmente nelle fasi finali, il tradimento, l'abbandono e lo smarrimento, la perdita dei consensoo, il fanatismo della folla, il crudele martiro
e l'assassinio ammantato di jus.

Il 9 Aprile si riuniscono gli Otto di Pratica (organo consiliare esecutivo della Repubblica preposto alla cifesa ed alia politica estera).

Non si ode una sola vece favorevole all'imputato.
In pochissimo tempo tutta Firenze si è fatta nemica del Predicatore.
I pochi che gli sono ancora fedeli, non osano fiatare.

Non appena Arrabbiati, Palleschi e Compagaacci hanno messo mano ai bastoni, tutti i frateschi hanno perso l'uso della parola e molti di essi, addirittura, hanno cambiato parte.

Quando vengono rieletti i magistrati cittadini (Otto di Pratica, Priori delle Arti, Capitano dei Popolo, Gonfaloniere di Giustizia, Podestà: tutti scelti nall' ambito del Consiglio Maggiore o Grande.

Un altro Consiglio detto "degli Ottanta" viene eletto dal Consiglio Grande ed ha la funzio¬ne di esaminare ed approvare i provvedimenti presi dalla Signoria.
In tempo di guerra assume i pieni poteri una magistratura nominata dal Consiglio Grande: i Dieci di Balia), questi risultano essere tutti Compagnacci o Arrabbiati.

Si decide di esaminare i tre frati in città e di non inviai li a Roma.
Savonarola viene interrogato lo stesso giorno da una commissione di quattordici cittadini verbalmente eletti, e quindi tutti ostilìssimi a lui.

Egli « stava costante e molto animosamente con arroganza rispondeva ».
L'atto ufficiale ammette che in questa occasione gli vengono dati « in due volte tratti tre e mezzo di fune ».

E' applicata quindi ia tortura.
Non era permesso torturare un ecclesiastico, tuttavia, trattandosi di un certo tipo di ecclesiastico, il papa avrebbe ben mostrato tutta la sua clemenza per i torturatori.

I comirissari inquirenti sono eletti il giorno seguente, in numero di diciassette.
« Tutti i più fieri degli inimici sua », scrive il Guicciardini,

Ciò basterebbe a invalida¬re il « processo ».

Il giorno 10 Aprile, torturato con quattro grandi strappate di corda, grida:
...« posatemi, che io vi scriverò tutta la vita mia! ».

La scrive, ma poco se ne rallegrano gli esaminatori, che anzi occultano quelle confessioni autografe.
Frattanto i frati di S. Marco lo rinnegano; gli esaminatori, però, nulla trovano di imputabile in lui.
Si continua ad applicare la tortura, fino al punto che neve essere imboccato perché possa in qualche modo nutrirsi.
Dagli atti ufficiali del processo non risulta che sia stata usata ia tortura, tranne per i tra tracci 3 mezzo del 9 Aprile.
Tuttavia Somenai, agente di Ludovico il Moro e avversario del Frate, attesta « quattro grandi tratti » dati il 10, e si sa per alfre fonti che ne vengono dati
« quando quattro e quando sei » altre volte.
Savonarola cede alla tortura, e farebbe mera viglia il contrario.

Le Dichiarazioni così estorte gli furono apparentemente da lui ratificare sotto minaccia di altre torture, vengono opportunamente manipolate.
Interpolazieni e manipolazioni sostanziali.

Il giorno diciotto ser Ceccone, il notaio che redige i verbali, legge in presenza del Frate il testo processuale cosi « formato e ordinato ». e questo gli predice la morte, ove osi pubblicarlo: « Se tu pubblichi questo, morrai fra sei mesi! ».
Ser Ceccone — che in effetti morì dopo sei mesi circa — gli mostra le ratifiche, che da sole po¬trebbero infamarlo presso il popolo.
Minacciato di nuove torture, sottoscrive la confessione completa.
Due canonici e sei frati di S. Marco convalidano il testo.
Incontrandoli, il Frate raccomanda loro di seguire sempre i suoi insegna¬menti.
Ha ormai perso — dice — lo spirito di profezia, che ha dovuto rinnegare oppresso dalle torture.

... « Ex ore tuo credidi, ex ore tuo discredo », gli risponde Fra Malatesta,

II testo viene letto nella sala del Consiglio in sua assenza, per paura che ritrovi il suo « spirito » e parli al popolo riportandolo dalla parte sua.

Sul testo, inviato al papa, gli esaminatori annotano: « A fatica e a forza, con molta ricerca, abbiamo estorto (!) poche cose». Alessandro VI, già informato tempestivamente della cattura del Frate, non aveva nascosto la sua soddisfazione, e in un breve spedito alla Signoria il 12 Aprile aveva espresso il desiderio di averlo a Roma. Aveva anche inviato una Bolla di indulgenza plenaria per tutti i Fiorentini. La Signoria però., fedele alle sue idee autonornistiche, aveva riba¬dito l'intenzione di processare in città l'imputato.

Si rende tuttavia necessario un secondo processo, per « estorcere » qualcosa di più consistente.
Gli slogano il braccio sinistro a forza 'li torture, e ciò olire le- possibilità di infliggsrg-i nuovi tormenti.
Il testo risultante vie/ie mani¬polato da ser Geccone con più raffinate astuzia.
Si lasciano spazi vuoti e si annotano aggiunte e postille dopo che il prigioniero, stremato dai tor¬menti, ha firmato.

Accanto alla firma viene anche apposta una riserva, per prevenire eventuali osservazioni: « Benché in alcuni luoghi sono al¬cune postille di mano di ser Francesco di sei-Barone ».
In seguito si procede alle manipolazio¬ni con la firma anticipata.
Uno degli esamina¬tori confessa a Jacopo Nardi * « esser vero che del processo di fra Girolamo a buon fine s'era levato qualche cosa, e a quello aggiunto qualche cosa ».
Frattanto più spicciamente sono state condotte a termine le esamine di Fra Domenico e Fra Silvestro.

Le loro deposizioni non aggravano la posizione di Savonarola.

Fra Domenico dice di aver confessato tutto come se stesse per morin , e senza mentire, perché sarebbe stato peccato grave.
In una Pratica del Maggio il governo ribadisce la decisione di non consegnare l'imputato principale al papa.

Alle motivazioni solite, se ne aggiunge una addotta dal Gonfaloniere uscente,

(* Jacopo Nardi - Storico fiorentino (Firenze 1476 • forse Venezia 1565) - Istorie della città di Firenze (dal 1494 al 1532).
Fu seguace del Savonarola ed ebbe larga parte negli eventi politici della sua città, specie durante l'ultima repubblica (1527-1530).
Nel 1533 fu confinato a Livorno. Fu poi a Roma ed a Venezia.

... Il papa si dichiara d'accordo con questa scelta demolitrice antisavonaroliana, considerando anche il fatto che la città non vuole perdere lo spettacolo della morte dei tre frati.
Invia comunque da Roma, su invito della Signoria, due suoi rappresentanti, per esaminare Savonarola ed i suoi due ultimi compagni di viaggio su ma¬terie che sono di competenza della Chiesa.
Così ai due processi laici se ne aggiungerà un terzo ecclesiastico, dall'esito scontato. I due uomini del papa sono Giovacchino Torriani, Generale dell'Ordine, e Francesco Remolines, auditore del Governatore di Roma.
Questi vengono a Firenze «con ordine che si faccia giustizia di essi (i frati) pubblica ».
La sentenza, quindi, è già stata pronunciata da chi li manda semplicemente a ratificarla.

Savonarola ha atteso un segno celeste che rivelasse la santità dell'opera sua e confondesse i veri nemici della Chiesa.
Questo segno forse lo aspettava anche in occasione della prova de) fuoco, prova che, sebbene gli ripugnasse, non aveva avversato con sufficiente energia.
Ma il segno non giunge, ed egli arriva a dubitare delle sue visioni, delle sue parole, della sua opera di Profeta.
Rinnega, sotto il tormento delle torture, la sua missione di Predicatore e Riformatore, il suo « dono profetico », il suo carisma, ma ritrova più tardi la sua salda e serena forrza interiore.

Aveva predetto: « Io starò a quell'ora cheto che tu mi arai in prigione, ed anche non starò allora cheto, perché parlerò allora pure con chi ne porterà da mangiare ».

Qui parla col suo carceriere, infatti, che da avversario gli diviene amico sincero e da malvagio diviene buono e cortese.
Il Frate per lui scrive «Regola del ben vivere ».
Compone pure, nei giorni di carcere, « Expositio ac meditatio in psalmum Miserere », ove si rammarica di aver rinnegato le sue visioni profetiche, così come Pietro aveva rinnegato tre volte Cristo, per paura.
L'esposi¬zione del salmo « In te, Domine, speravi » ha accenti di poetico lirismo e si interrompe a poco dalla fine del salmo: manca il tempo.

Al terzo processo sono, quindi, presentì Torriani e Remonnes.
Le prime domande vertevano sul tema del Concilio: con chi e fino a qual punto ne avesse trattate le pratiche; quali fossero i cardinali implicati nella faccenda; fino a che punto vi avesse avuto parte Oliviero Carafa, protettore dell'Ordine domenicano e implacabile ne-mico del papa.
Gli viene domandato se aveva os¬servato la scomunica e se aveva detto che Alessandro VI non era né vero cristiano né papa: a questa domanda risponde di averlo scritto in una lettera che poi ha bruciato, ma di non averlo' mai detto. Remolines non è soddisfatto delle ri-sposte, ed ordina che sia spogliato e torturato con tratti di fune.

Allora il Frate, inginocchiatosi, ritratta tutte le precedenti confessioni, dicendo di aver negato Cristo per paura di tormenti: '' Ciò che io ho detto l'ho avuto da Dio. Dio, tu mi hai dato la penitenzia per averti negato: ...''

.. Immediata-mente viene di nuovo sottoposto a torture, e nega ancora Dio: tuttavia oltre a questo rifiuto della precedente ritrattazione, da lui non si riesce ad estorcere null'altro che i suoi carnefici possano ritenere importante per giustificare ufficialmente la condanna definitiva dei tre frati.

Il 22 Maggio la esamina è breve e spiccia.
I tre imputati sono degradati il 23 e condannati al giudice secolare come
« eretici e scismatici » e per aver predicato cose nuove.

In realtà nel loro comportamento nessuno degli inquisitori aveva trovato eresia, né scisma, tanto che il suo « complice », Giuliano della Rovere, sarà poco
dopo eletto papa.

Quanto alle ... « cose nuove », il Frate ha predicato che non si deve far commercio dei Sacramenti, e che il pontefice non deve tenere cinedi né concubine, ed altre simili « novità ».


In una pratica, Agnolo Niccolini propone di non ucciderlo, bensì di incarcerarlo perché potesse scrivere cose mirabili; ma i suoi nemici te¬mono che una Signoria a lui favorevole possa li¬berarlo, denunciando tante nefandezze e falsità commesse in quel processo.

Bernardo Rucellai arriva a dire: « Mettiamo tutto il male sopra di questo frate e scarichia¬mone la città ». E Parenti, uno degli Otto di Pra¬tica, storico ufficiale di quel consesso di carnefici: « Nostra intenzione era che di qui vivo non uscisse».

In effetti Rucellai e Parenti sintetizza¬no molto efficacemente il complesso e dram¬matico stato d'animo di una città in preda a istinti incontrollabili ed irrazionali che la spin¬gono ad effettuare un mostruoso sacrificio uma¬no, un tìeV;'.to purificatore. I frati sono condan¬nati a mor!. e. Giorno dell'esecuzione è lo stesso 23 Maggio Savonarola andrà via per sempre da Firenze nel mese in cui vi eia giunto.

I condanati vengono prima spogliati dell'abito.
Gli incaricati, Tommaso Sardi e Sebastiano Bontempi, quasi strappano di dosso l'abito ai tre.

... « Fate piano per i tormenti che ho sofferto » — dice Savonarola, piagato e con un braccio spezzato.
E, rivolto all'abito,
... « O abito santo — dice — quanto ti ho desiderato! Dio mi ti dette e insino a ora ti he conservato immacolato; ~ ora io non ti lascerei, ma tu mi sei tolto! ».

Vengono poi degradati. « Io ti separo dalla Chiesa militante e trionfante! ».

« Solo dalla militante, dalla trion¬fante non spetta a tei », risponde Gerolamo,' cor-reggendo il Vescovo di Vasona, Fra Benedetto Paganotti, brav'uomo, demandato a questo ufficio, sotto pena di scomunica, con un breve « ad degradandos fratres morituros ». Ultima raffinatezza de; papa, questa di far degradare il Pro¬feta da un suo seguace, già ospitato in S. Marco qualche anno prima.

A questo punto Remolines da ai tre condannati l'assoluzione plenaria da parte della « Santità del Nostro Signore ».

Se i tre martiri fossero stati davvero eretici e scomunicati, non avrebbero potuto fruire di nessuna indulgenza se non fosse stato prima tolto l'osta¬colo della scomunica e da essi abiurata l'eresia.

Giungono davanti agli Otto, e qui sanno che saranno impiccati ed arsi.
Prima tocca a Silvetro, poi a Domenico.

Infine a Girolamo.

Prima che gli venga data la spinte, qualcuno grida:
... « Savonarola, ora è tempo di fare miracoli! », così come fu gridato a Cristo:
... « Scendi dalla cro¬ce e crederemo in te! ».

Le ceneri sono gettate in Arno, per evitare che i Piagnoni le conservino.

Savonarola lo aveva profetizzato:

... « Andranno gli empì al santuario, con la scure e col fuoco le porte spezzeranno e abbruceranno, e pigle¬ranno gli uomini giusti e nel luogo principale della città li abbruceranno; e quello che non consumerà il fuoco e non porterà via il vento, getteranno nell'acqua ».


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Emblematico resta il giudizio che Guicciardini esprime sulla sua persona: « Io ne sono dubbio e non ci ho opinione risoluta in parte alcuna; ma bene conchìuggo questo, che se lui fu buo¬no abbiamo veduto ai tempi nostri uno grande profeta; se fu cattivo, uno uomo grandissimo».

Un giudizio possibilista, che in effetti non è nemmeno un giudizio, in quanto manca di certezza.



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NOTE CONCLUSIVE - La parte maggiore degli studi storici e letterali sulla vicenda savonaroliana sì colloca nel secolo scorso, e va detto che spesso gli studiosi dell'argomento sono rimasti legati ad esigenze apologetiche di vario ordine.

Né Francesco De Sanctis contribuisce storica-mente con l'affermazione, divenuta un luogo co-mune: « Savonarola fu l'ultimo raggio d'un passato che tramontava sull'orizzonte; Machiavelli fu l'aurora precorritrice dei tempi moderni.
L'uno, l'ultimo tipo del vecchio uomo medioevale, l'altro, il primo tipo dell'uomo moderno ».

Qui è evidente la particolare tendenza del grande critico ad etichettare uomini e idee, e quella generale, comune un po' a tutti, a voler divìdere la Storia in compartimenti stagni, per eccessi¬vo amore di chiarezza e mania di ordine.

Un'altra bella e fortune La frase dello stesso dice che Savonarola è « una reminiscenza del Medio Evo, profeta e apostolo a modo dantesco ».
Savonarola medioevale, dunque, Machiavelli vero borghese moderno, ed anche lui, a modo suo, profeta, « profeta laico ».


Così anche per Carducci, che insisteva sul medievalismo del Frate:
... « Non sentiva che la riforma in Italia è il rinascimento pagano, che la riforma puramente religiosa era riservata ad al-tri popoli più sinceramente cristiani».

Vale la pe-na riportare le significative parole di Padre Vincenzo Marchese che nell'appendice 23° dell'Ar-chivio Storico Italiano ci presenta singolarmente riuniti in triade Savonarola, Campanella e Bruno.

... « Tre grandi Italiani, usciti in tempi diversi da un chiostro medesimo, ebbero dolorosa la vita, dubbia e combattuta la fama, e due di essi crudelissima la morte.


Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Girolamo Savonarola lasciarono in forse quale fosse più grande e più sventurato.
Tutti e tre nemici di ogni maniera di tirannide, tutti e tre grandi nell'ingegno e nel¬la sventura ebbero a soffrire l'ira di potenti nemici, che dopo aver loro conturbata la serenità della vita ne vollero dopo la morte vituperata la memoria, apponendo ai primi due la taccia di ateismo, ed al terzo quella di violata religione.

Ma se la scoria non potè da ogni colpa purgare la fama di Bruno, ben rivendicò quella di Cam¬panella, e il nome di Fra Girolamo Savonarola, dal patibolo non macchiato, risplenderà eterna¬mente negli scritti del Nardi, del Segni, del Ma¬chiavelli, del Guicciardini., e sarà con riverenza ed affetto ricordato dagli Italiani, finché avran¬no cara la religione e la libertà».


Savonarola, eretico, o santo, precursore o sopravvissuto, a tutta prima pare non conciliarsi con una cultura che lo aveva aspramente combattuto, dopo averlo ascoltato con devoto amore.

Certo una precostituita immagine d'un Rinascimento fiorentino spensierato, pagano, prigioniero dei miti classici e delle feste mondane fa sparire alla vista quella Accademia Marciana che vede riuniti intorno al Frate filosofi « pagani », e da cui una spiritualità e una religiosità nuova sembra venire agli artisti.

Savonarola è in costante, diretto rapporto culturale e politico con il suo ambiente.

«E così, fatto tanto profitto cir¬ca le cose spirituali, non fece ancora minori ope¬re circa lo stato della città e il beneficio pub¬blico »: così illumina il Guicciardini sull'operazione etico-politica tentata dal Profeta.

E la Firenze del '400 non lo sente come un estraneo, come una "vox clamantis in deserto", contraria¬mente a quanto si supponeva nell'800.

«Predicava tuttavolta intorno al fatto dello Stato, e che si. dovesse amare e temere Iddio, e amare il bene comune; e che niuno non volessi più levare il capo e farsi grande.

Sempre favoriva il popolo ».

Così Luca Ganducci fecalizza i punti di contatto fra Savonarola ed il suo tempo, dal momento che il Rinascimento è per eccellenza epoca di aspettazione.
Il senso dei grandi eventi, del tramutarsi del mondo permea il pensiero e lo spirito del tempo.

Gli astrologi e i filosofi, spesso una sola persona come in Marsilio Fici-no, cercano e trovano nelle stelle la conferma e l'annuncio di mutamenti imminenti.

E' un'aria di attesa, quasi una grande vigilia di un "natale" diverso dagli altri. Ma il rinnovamento atteso verrà « dall'alto »: sarà un rinnovamento subito, imposto. Savonarola fa vigorosamente sua la « grande attesa » e la rende popolare e democratica, pubblicizzandola, così che sia anche sce> ta « dal basso », attrae erso una presa di coscien-za che implichi la libera scelta della «peniten¬za » al fine dì evitare il « flagello ». Insornma questo profeta vuole fondere nella forma drammatica del mito l'ideologia cristiana e l'utopia ugualitaria, scelte attraverso una cosciente pre¬parazione dell'opinione pubblica operata sopra un senso comune di base e per mezzo di immagini-simboli noti per appartenere ad un patrimo¬nio comune, ad un codice familiare: le Sacre Scritture ed i temi centrali delle profezie .reli¬giose a sfondo sociale della tradizione profeti¬ca cristiana.

Per questo motivo in lui la "profezia" non è allineata sulla tradizione avveniristico-escatolo-gica, anzi, è in vivo e stretto rapporto col pre-sente, quale momento logicamente analitico dei fattori sociali, economici e politici visti nella prospettiva dei loro possibili effetti consequenzìali.

E' previsione critica affinata da una dura disciplina spirituale e intcriore e basata su una rigorosa disamina dei fatti. La profezia, nella concezione tomista, cui il Frate si attiene, è "direzione degli atti umani", e quindi comporta un' aderenza perfetta alla storia.

Profezia, quindi, che non si affida all'irrazionale entusiastico, quanto piuttosto ad un rigore etico religioso che dovrebbe conciliare e fondere, per così dire, lògos e mito.

Predicatore del futuribile, egli operò proficuamente verso i giovani, sensibilizzandoli al rispet¬to del :ene comune, così da ren lerli spesso suoi collaboratori.

... « Intendi, Firenze, quello che io ti dico: da te uscirà la riformazione di tutta Italia ».

Queste parole, contenute in una predica del 1494, racchiudono il sogno politico suo: fare di Firenze il centro di un rinnovamento de¬mocratico capace di estendersi gradualmente al¬le altre città italiane. Nel realizzare questo programma, guadagna, il consenso degli scontenti, come 3-:à si è osservato, e soprattutto di quelli che si sentivano oppressi dalle spoliazioni medicee » ed estranei alla vita politica e culturale della ristretta borghesia mercantile.

Per creare una mentalità nuova, occorre spazzare via quel¬la dominante, operando una vigorosa rivoluzione culturale.

Per questo comincia a sostenere che la civiltà rinascimentale è, in sostanza, pagana.
Come dire che corrisponde ad un atteggiamento culturale precristiano.
Quello che più lo irrita è il compromesso nascente fra letteratura classi-cheggiante e certi contenuti cristiano religiosi.

Artisti, letterati e predicatori mescolano il sacro con il profano, il sensuale con il mistico, Ovidio con Cristo.

Lo sbigottisce, cioè, la confusione e-norrne che regna nell'animo degli intellettuali, in¬dice di una mancanza di rigore metodologico o di una profonda angoscia, di un grave dissidio fra spìrito e materia, fra pagano e cristiano.


L'Umanesimo è, in effetti, una esaltazione dell'uomo e di tutto ciò che è "umano".

L'attenzione si concentra dall'universale al particolare; i valori umani ed i problemi concreti dell'esistenza prendono il sopravvento su una visione più am¬pia e generale dell'esistenza proposta dal Medio Evo e dalle sue strutture economiche e sociali.

E' ben vero tuttavia che i « padri » dell'Umanesimo, e quindi del Rinascimento, sono quasi sempre dei grandi cristiani.
Vittorino da Feltre, Marsilio Ficino, Enea Silvio Piccolomini (Pio II). ... segue dopo le photos ... ....... § §§
§§ § ...... tendono a sottolineare la continuità ideale che esiste fra le dottrine degli antichi e la cultura cristiana.
Per questi intellettuali i valori rivendi¬cati dalla nuova cultura, proprio perché vera-mente umani, possono essere anche autentica¬mente cristiani.
Ma quando questo atteggiamento culturale rivela caratteri di esasperato individualismo e dì paganesimo pratico, gli spiriti au¬tenticamente religiosi e non disposti al compro¬messo si allarmano: è il caso di Savonarola.

Gli uomini di cultura e gli artisti in genere dell'epoca servono spregiudicatamente padroni diversi e spesso di carattere opposto.
Sembrano non avere precisa coscienza di una funzione so¬ciale dell'arte e della cultura.

L'intellettuale rinascimentale pare completamente in balia delle forze economiche dominanti, e tutta la sua "cultura" non gli consente la minima autonomia, anzi, è la ragione stessa della sua "servitù".

Intellettuale di classe, «organico», fedele al senso comune della classe dominarne, funzionario ed operatore culturale al servino delle caste borghesi, dei ceti mercantili, più o meno imparentati con le aristn-^razie tradizionali.

Questo fenomeno indica come cultura ed economia si vengano a fondere indissolubilmente proprio nell'epoca rinascimentale, costituende un rapporto interdipendente che è alla, base rii ogni potere.

Questa interdipendenza consente un minimo di autonomia, come si è visto, solo ad un livello privato e personale: così Leonardo, l'artista-gonio rinascimentale per eccellenza, cambia sovente "padrone".
Serve prima i Medici, poi la Repubblica fiorentina, quindi il Duca di Milano, e infine Cesare Borgia.
Eppure, a ben guardare, il suo messaggio è unico, costante, univoco: cam¬bia il contesto, ma mittente, codice e messaggio conservano la loro identità.

Questo comportamento a prima vista può ap-parire incostante e superficiale, ina in realtà non fa che confermare l'alleanza fra ar,e e capitale, al di sopra dslle insoddisfazioni e delle discordie degli individui.
Cor.'"inuità nel rapporto di fc ido, quindi, a incostanza, "capriccio" ad un livello personale, individuale.

C'è un'angoscia, una sofferenza, di fondo

l'artista, nell'intellettuale rinascimentale: possiede meravigliosamente il codice espressivo, conosce perfettamente il messaggio ed il destinatario, in fondo però, gli sfugge la vera natura del mittente, ossia di se stesso, e per questo prova un senso di vuoto e di smarrimento che si risolvono in rabbia, perfezionismo, in angoscia che na¬sce dal fatto di non riuscire a spiegarsi la moti¬vazione reale del suo operare artistico culturale.

Non ha precise e coscienti motivazioni politiche, né sociali, né economiche: è veramente privo di certezze interiori consolatorie e rassicuranti.

E' il dramma, soprattutto, di Leonardo e di Michelangelo, perennemente in crisi, sempre lacerati da dubbi e incertezze.

Unici intellettuali veramente consapevoli delie motivazioni del loro messaggio, sono appunto Machiavelli e Savonarola: in misura diversa e per diversi fini, ambedue avevano ben chiaro quale indirizzo dare al proprio discorso, provocatorio e programmatico, sospeso tra crudo reali¬smo e mitica utopia, e destinato comunque, co¬me le invenzioni di Leonardo, a rimanere per il momento privo d'ogni applicazione pratìca.p e v* destinato;-ad- essere riscoperto in epoche succes¬sive, sotto diverse forme.

Uno dei due, ha avuto modo di giudicare l'altro da « spettatore ».

Machiavelli accusa il Frate di aver voluto fare un partito politico della sua grande idea morale, dividendo la umanità « in due schiere: l'una che milita sotto Iddio, f>d è alleila rie! Pia orioni suoi «pprifinr l'aera s'ifto il diavolo, ed è quella degii avversar! ».
Questo dice nella lettera del 9 Marzo 1497 a Riccardo Bechi. Per lui il Frate è un opportunista che « viene secondando i tempi e le sue bugie colorendo ».

Il fatto è che i due sono su posizioni antitetiche, ed entrambe, a modo loro, estremiste: Savonarola, acceso dal fervore profetico, ammonisce gli uomini e non si stanca ci ripetere come dovrebbero essere, Machiavelli, il teorico del realismo politico, mostra agli uomini co.ne in realtà sono, e perciò avversa radicalmente l'in-terpretazione savonaroliana della realtà sociale e politica.

E questo, lo fa in ossequio a tutta la logica del suo pensiero, dal momento che consiglia ai politici la religione come instrumentum regni, mezzo di disciplina dei popoli, e non am¬mette che i principi stessi si sottomettano alla religione, e specialmente disapprova, che pretendano di governare derivando da Dio una forza che solo doveva °ssere riposta nella loro virtù.

Un tale uso della religione era corruzione della sua natura ed originava una dubbia politica.

Savonarola, che vuoi fare politica facendo il profeta. è cattivo profeta, perché politicizza il suo •profetismo, e nello stesso 'empo è infelice politico, perché non arma abbastanza la biin profezia (''profeta disarmato'' ... lo definisce).

A questa analisi dei Eusso risponde Granisci, affermando che l'opposizione Savonarola - Machiavelli non è l'opposizione tra essere e dove, essere, ma tra due dover essere, quello astratto e fu-moso del Savonarola e quello realistico del
Machiavelli, realistico anche se non diventato real¬tà immediata, poiché non si può attendere che un individuo o un libro mutino la realtà, ma solo la interpretino e indichino la via possibile dell'azione.

Crediamo, per concludere queste note sul Savonarola, che sia opportuno citare le parole di un altro grande «profeta», anche lui perseguitato e, in definitiva,
« disarmato », se volessimo valutarlo Col metro machiavellico: Antonio Granisci, che dice del Frate fop. cit. Quad. 15 parag -afo 70, Rinascimento, pag. 1832):

«Chi sostiene che Sa¬vonarola fu "uomo del Medio Evo" non tiene sufficientemente conto della sua lotta col potere ecclesiastico, lotta che in fondo tendeva a rende¬re Firenze indipendente dal sistema feudale chie-sastico ».

Un Savonarola, quindi (A. Gramsci, op. cit Quad. 5 (IX) - paragr. 123; 59 bis), figlio della tendenza « prog., jssiva » del Rinascimento, desti¬nata a soccombere, vinta dalla tendenza « regres¬siva », impersonata da un'aristocrazia staccata dal popolo-nazione. Il popolo già preparava, pe¬rò, la reazione a questo parassitismo nella ri¬forma protestante, nel savonarolismo fiorentino. Le stesso pensiero di Machiavelli è una reazione al Rinascimento, è il richiamo alla necessità nò-litica e nazionale di riiwicinarsi al popolo co¬me hanno fatto le moaarchie assolute di Francia e di Spagna.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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E. Garin, « Quattrocento », Firenze 1954.
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G. Scaltriti, « Savonarola, il vero contestatore », Torino 1970.
L. Russo, « Machiavelli ». Bari 1974.
A. Granisci, « Quaderni dal carcere », Torino 1975.
M.L. Rizzatti, Savonarola. Milano 1973.


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Ideologia e realtà nella poesia satirica classica
Savonarola e i suoi tempi
Appunti sul Mito

pubblicati negli anni 79 \ 80 in
Alla Bottega
via Plinio 38 Milano
Direttore Pino Lucano

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